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Severino Di Giovanni
Blow up, luglio-agosto 2015 Nonsolotango
Se c’è una scia positiva, nel fiorire di mode culturali, è che spesso dietro di loro si aprono nuove opportunità. È successo lo scorso anno, quand’è caduta la ricorrenza, in un’unica soluzione, del trentennale della morte e del centenario della nascita dello scrittore Julio Cortázar (1914-19S4). Le case editrici italiane, spalleggiate da quotidiani, intellettuali e blog letterari, hanno celebrato in pompa magna, riscoprendo uno dei più vividi talenti argentini. Ne hanno approfittato, trasversalmente, molti altri autori, alcuni molto famosi, come Jorge Luis Borges, altri caduti nel frattempo nel dimenticatoio, come Roberto Arlt o Adolfo Bioy Casares. Ne ha beneficiato, in generale, l’intera Argentina narrativa, tornata alla ribalta dopo che, negli ultimi anni, erano stati la morte precoce di Roberto Bolaño, cileno, quella dolorosa di Gabriel García Marquez, colombiano, e il Nobel a Mario Vargas Llosa, peruviano, insieme ai bestseller di Luis Sepúlveda, cileno, a tenere alta la bandiera sudamericana, portando però l’attenzione lontano da Buenos Aires.
L’Argentina è un paese di cui è facile innamorarsi, un unicum nel già complesso panorama continentale. Un mistero politico, vista la fragilità delle sue istituzioni e il fascino, anche nefasto, di alcuni personaggi, come i coniugi Perón o il dittatore Jorge Rafael Videla, e ancor oggi un buco nero socio-economico, che vive in un limbo tra il suo passato controverso e un futuro che sembra sempre troppo lontano. Un pozzo di contraddizioni. Per questo motivo preferisco affrontare questo viaggio per parole e immagini con un vagabondare un po’ anarchico, a balzi e scorciatoie, senza seguire una logica pura o cronologica, ma muovendomi per sensazioni.
Nel 2014 cadeva un altro importante anniversario, quello della morte nel 1974 dell’ex presidente Juan Domingo Perón. Da lì sarebbe cominciata l’ennesima storia nera dell’Argentina. L’ennesimo risvolto pieno di marciume da nascondere. La cosa buffa è che uno scrittore, proprio uno di quelli riscoperti grazie a Cortazar, aveva intuito tutto con grande anticipo.
Il porteño Roberto Arlt (1900-1942), di cui da poco è stato ristampato il dittico composto da I sette pazzi (1929) e I lanciafiamme (1931), ha conosciuto a sua volta un feroce dittatore, José Félix Uriburu, arrivando a scrivere: «E io voglio la rivoluzione. Ma non la rivoluzione da operetta. L’altra rivoluzione. La rivoluzione che è fatta di fucilazioni, donne violentate per la strada dalle turbe infuriate, saccheggi, fame, terrore. Una rivoluzione con una sedia elettrica a ogni angolo di strada. Lo sterminio totale, completo, assoluto, di quegli individui che hanno difeso la casta capitalista... Dopo verrà la pace...». Moderno, irriducibile e più che mai attuale, è tra i precursori di quella letteratura politica che andrà a riflettere sui terribili anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta del Novecento.
Insieme a lui, Osvaldo Bayer, nato nel 1927 a Santa Fe, una delle penne più infuocate d’Argentina, che ricorre al passato per rileggere il presente. Con Severio Di Giovanni (1970) compone un poema anarchico elevando al ruolo di eroe un emigrante italiano, un maestro elementare fuggito da Chieti negli anni Venti per scappare alle persecuzioni del fascismo, che nella nuova terra si trasforma in un Robin Hood ante litteram: svaligia banche e organizza attentati contro le autorità. Un documento storico meticolosamente ricostruito, in cui la realtà vince sulla finzione, cosi come accadrà nel successivo Patagonia Rebelde, pubblicato in tre volumi tra il 1972 e il 1974, da cui il regista Héctor Olivera trarrà nello stesso anno la pellicola omonima. […]
di Matteo Di Giulio
www.carmillaonline, 5 febbraio 2014 Severino Di Giovanni (Chieti, 1901 – Buenos Aires, 1931)
Il 10 giugno 1924 una squadra fascista capitanata da Amerigo Dumini sequestra e uccide il segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, reo di aver denunciato alla Camera i brogli elettorali e le bastonate delle milizie fasciste. Un anno dopo, dall’altra parte dell’oceano, il paese che ospita la comunità di immigrati italiani più grande del mondo si prepara a festeggiare il venticinquesimo anniversario della salita al trono di Vittorio Emanuele III. Al teatro Colón di Buenos Aires tutto è pronto per la festa, allestita dalla delegazione del Fascio. La banda si appresta a eseguire l’inno di Mameli mentre le dame e i signori borghesi scalpitano impazienti dentro i loro vestiti migliori. La marcia parte e all’improvviso dalle prime file della platea si alza un grido: “Assassini! Ladri! Viva Matteotti!”, corredato da una fitta pioggia di volantini che investe le guardie fasciste.
La caccia all’uomo ha inizio, volano cazzotti e spintoni. Nel parapiglia generale, l’ambasciatore italiano Luigi Aldrovandi Marescotti, conte di Viano, afferra un volantino piovuto dai piani superiori. Il nervosismo lo pervade, il pensiero vola a Mussolini e alle sue supreme direttive: consolidare l’immagine del regime fascista in Argentina. Non ha nessuna voglia di leggerlo, vorrebbe strapparlo, ma un ragazzotto biondo lo libera dalla dovuta incombenza facendo vibrare con le sue urla i manganelli delle camicie nere:
«… Santificatori della monarchia Sabauda avete dimenticato che proprio sotto il regno di Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà… di pochi Re d’Italia; sorse, si alimentò nel sangue, quell’accozzaglia di briganti che si chiamano i FASCISTI… con tutti i suoi Dumini, i Filippelli, i Rossi, i De Vecchi, i Regazzi, i Farinacci… e che trova in Benito Mussolini la più precisa e perfetta raffigurazione di tutte le infamie… Glorificatori della Monarchia appuntellata dal pugnale dei Dumini scrivete nella storia della Casa Savoia questo nome glorioso: Matteotti! Ricordate i 700 assassinati nel 1898 dai cannoni di Umberto il Buono. W la mano di Bresci!…»
Dal 6 al 9 marzo 1898 a Milano, l’esercito regio di Umberto I, comandato dal generale Bava Beccaris, scaricava la sua artiglieria sulla piazza gremita di operai provocando una carneficina. Due anni più tardi e due mesi prima della nascita di Severino di Giovanni, l’anarchico Gaetano Bresci tornava in Italia dall’America per vendicare i massacri del regno d’Italia, quelli siciliani del 1894 e quelli milanesi del 1898. Il 29 luglio 1900 sotto i colpi della sua rivoltella cadeva Re Umberto I, soprannominato il “re Buono”.
Il biondo del teatro Colón di Buenos Aires si chiama Severino di Giovanni. È un tano [termine con il quale venivano chiamati gli immigrati italiani in argentina, da napolitano], arrivato in Argentina da meno di tre anni e già entrato nei registri della polizia bonaerense a seguito di questa azione. Nel 1922 ha 21 anni quando lascia l’Abruzzo e s’imbarca per l’America con la moglie Teresina e i suoi figli. Non sogna il Nuovomondo, sa che per quelli come lui la vita è dura su entrambe le sponde dell’Atlantico. Decide di partire perché non tollera l’avanzare del fascismo e il crescere della repressione nei confronti degli anarchici. Oltreoceano diventa presto uno dei massimi esponenti della corrente illegalista dell’anarchismo argentino. Sostiene la campagna internazionale di solidarietà agli anarchici Sacco e Vanzetti con gli articoli pubblicati sul suo giornale “Culmine” e con ripetuti assalti alle banche. Crede ferventemente nella legittimità di queste azioni. Sulla sua scrivania c’è scritta una frase di Fichte: «chi non ha il necessario per vivere non deve riconoscere né rispettare la proprietà degli altri: i principi del contratto sociale sono stati violati a suo sfavore».
I soldi ricavati dai colpi messi a segno servono per finanziare il sostentamento delle famiglie dei compagni arrestati, la propaganda libertaria a mezzo stampa e il suo ambizioso progetto di pubblicare l’opera completa di uno dei suoi autori preferiti: il geografo pacifista e anarchico Élisée Reclus.
Solcando le strade degli espropri e dell’illegalismo di terra argentina Severino incontrerà diversi anarchici europei, tra cui Buenaventura Durruti – protagonista della Guerra Civile spagnola del ’36 – con il quale condividerà alcune azioni. Ma non tutto il movimento anarchico argentino accetta le pratiche illegaliste di Severino. Men che meno quando queste provocano morti o feriti innocenti e inaspriscono la repressione nei confronti degli anarchici. È il caso della bomba alla National City Bank, ventitré feriti e due morti, e dell’ordigno esploso al Consolato italiano, nove morti, di cui sette fascisti italiani, e trentaquattro feriti.
A seguito di queste azioni Severino diventa il nemico pubblico numero uno della Repubblica Argentina e viene violentemente attaccato da alcuni esponenti del movimento anarchico bonaerense. Al sentirsi accusare di fascismo Severino s’infuria. L’invettiva arriva dalle colonne del quotidiano anarchico “La protesta” e più precisamente dalle penne di Lopez Arango e Diego Abad Santillan (dirigente della CNT e della FAI durante la Guerra Civile spagnola). È l’inizio di una profonda frattura che attraverserà il movimento libertario argentino e lo porterà allo sfacelo. López Arango viene assassinato e l’autore del misfatto è con tutta probabilità Severino di Giovanni. L’anno successivo lo stesso Severino chiede, con una lettera inviata a Luigi Fabbri – insieme a Malatesta la figura più riconosciuta dell’anarchismo internazionale dell’epoca –, che le azioni da lui portate a termine vengano giudicate a seguito degli attacchi de “La Protesta”. Il tribunale anarchico che si formerà e al quale prenderà parte anche Hugo Treni (alias Ugo Fedeli) giudicherà le pesanti accuse contro Severino infondate anche se molti compagni non giustificheranno mai l’assassinio di Arango.
Braccato dalla polizia e consigliato dai compagni decide di fuggire dall’Argentina destinazione Francia. Solo che la ragazza di cui è innamorato, América Scarfò, non è ancora maggiorenne e non può lasciare il paese senza l’autorizzazione dei genitori. Severino s’improvvisa così regista di teatro e mette in scena un’opera buffa che si prende allo stesso tempo gioco della morale borghese e dei dogmi cattolici. Convince un compagno anarchico, Silvio Astolfi, a fidanzarsi fittiziamente con América e ad andare a casa sua ogni giorno per corteggiarla. Iniziano così le pratiche tradizionali che avrebbero portato i due ragazzi al matrimonio. I genitori si convincono della genuinità del loro amore e concedono a Silvio Astolfi di sposare América. Pochi mesi più tardi il sacramento si consuma.
Ora con il consenso del marito la sposa può espatriare. Il loro viaggio di nozze dura il tempo di una corsa in macchina per arrivare da Severino che li aspetta fuori città con delle rose rosse in mano. In questo periodo, nonostante il cerchio intorno a lui si faccia sempre più stretto Severino trascorre probabilmente i mesi più sereni della sua vita insieme ad América. È a un passo dalla fuga e dalla rinascita in Francia, dove i compagni italiani espatriati lo aspettano. Ma accade un imprevisto: il fratello della sua compagna viene incarcerato. Severino non se la sente di fuggire in Europa senza aver prima liberato il compagno di idee e di tanti colpi. Insieme a Paulino Scarfò, fratello di América e Alejandro, tenta l’ultimo colpo in terra argentina ma fallisce. Il tempo stringe e a peggiorare la situazione ci si mette l’inasprirsi della repressione dettata dalla conquista del potere del dittatore Uriburu.
La sera del 30 gennaio 1931 la tipografia di Gennaro Bontempi è circondata dai poliziotti, Mario Vando (alias Severino di Giovanni) esce allo scoperto e si accorge del pericolo. Inizia una corsa forsennata, seguita da una sparatoria che costerà la vita a una bambina e a un poliziotto. Anche Severino è a terra ma non è morto. Forse si è sparato da solo, forse l’hanno colpito. Il giorno successivo viene processato. La difesa è affidata a un tenente dell’esercito che metterà in discussione le accuse mosse nei confronti dell’anarchico e per questo si guadagnerà l’esilio forzato in Paraguay.
La mattina del 1 febbraio 1931 sembra di essere tornati indietro di sei anni, a quel teatro Colón allestito a festa dai fascisti. Gli invitati sono gli stessi: dame e signori borghesi che scalpitano impazienti dentro i loro vestiti migliori. I militari argentini preparano il palcoscenico. Severino entra in scena. Risa e scherni. Ha gambe e braccia legate. Lo legano alla sedia con delle corde per evitare che il cadaveri si afflosci a terra una volta colpito a morte. Il plotone si schiera davanti a lui. Un ultimo grido: «Viva l’anarchia!» e si chiude il sipario. Gli spettatori tornano nelle loro case accoglienti e intanto la storia di Severino vola da una parte all’altra dell’oceano.Il giorno dopo nello stesso modo ammazzeranno Paulino Scarfò, le sue ultime parole saranno le stesse di Bartolomeo Vanzetti: «Signori, buona notte, viva l’anarchia!»

Per approfondimenti
O. Bayer, Severino di Giovanni, Agenzia X, 2011.
O. Bayer, Severino di Giovanni, «Carmilla», 10 dicembre 2011.
C. Cattarulla, Anarchici italiani in Argentina: Severino di Giovanni, «DEP – Deportate, esuli, profughe», 11, 2009, p. 81-93.
V. D’Andrea, Viva l’anarchia! , «Adunata dei Refrattari», 28 marzo 1931 [traduzione inglese].
A. Prunetti, America, «Carmilla», 13 settembre 2006.
G. A. Stella, Severino di Giovanni, storia d’amore e d’anarchia, «Corriere della Sera», 31 dicembre 1999.
Sur Blog, L’esecuzione di Severino di Giovanni, «Sur Blog», 14 dicembre 2011.

Approfondimento musicale
O. Bayer & Quinteto Negro La Boca, Milonga para Severino
di Simone Scaffidi Lallaro
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com, 18 gennaio 2012“Severino Di Giovanni”, di Osvaldo Bayer
Ho conosciuto Alberto Prunetti lo scorso dicembre ad Haarlem. Di suo avevo letto Il fioraio di Perón, e i suoi pezzi su Carmilla, l’ormai famoso Argentinazo, e una traduzione, anch’essa da osvaldo Bayer su “Il Reportage”. Con la traduzione di Severino Di Giovanni (Agenzia X, 2011) diciamolo subito, l’editore ha regalato agli italiani la possibilità di leggere uno dei libri più odiati dalla dittatura argentina, quella della guerra sucia. Ma Severino racconta una storia di sangue e anarchia degli anni Venti, un tango-punk nero e ribelle, come lo definisce la quarta. Come ha fatto a farsi odiare tanto dai generali e dai marescialli? Qui ha giocato molto la forza narrativa di Osvaldo Bayer. Per questo estratto, di cui ringraziamo l’editore, ho scelto la parte romantica – distruttiva, folle e d’altri tempi, tenera e selvaggia, innocente e libera, eppure colpevole come lo è la vita di Severino Di Giovanni – dell’amore di Di Giovanni con l’allora quindicenne, America Josefina Scarfò.

L’anarchico, l’amore, la donna

…perderci tra il verde, lontano, lontano… Camminare in braccio a questa aurora verso un orizzonte intangibile e irraggiungibile, sempre uniti, sempre avvinti come due edere succhianti la propria esistenza nell’altra, e cantare le rapsodie eroiche della vita difficile.
Severino Di Giovanni, lettera a America, 10 settembre 1928

Dopo due mesi di persecuzione ininterrotta, Di Giovanni è tornato a Buenos Aires, spinto dalla sua passione per questa ragazza di quindici anni: America Josefina Scarfò. Il ricercato l’ha aspettata all’uscita da scuola, hanno fatto lunghe passeggiate per calle Yerbal, lungo il ruscello Maldonado, nel parco Lezica e nel parco Centenario. L’amore cresce e il 17 agosto 1928 decidono di riconoscere la loro libera unione. Un’unione che scioglierà solo la morte, due anni e mezzo dopo.
Severino, quando non può vederla, le scrive fino a tre lettere al giorno. Sono lettere che devono a volte passare attraverso le mani di tre messaggeri, prima di arrivare a destinazione. E quasi tutti questi messaggeri pensano che siano messaggi attinenti la lotta per l’ideale… non sospettano siano lettere d’amore. Gli incontri tra i due amanti avvengono in circostanze ancora più complesse. Lui, ricercato dalla giustizia; lei, un’adolescente sorvegliata attentamente dai genitori e dalla polizia, che vigila continuamente la sua abitazione per arrestare i suoi fratelli, Alejandro e Paulino.
Josefina – Fina, come la chiamano tutti – si muoverà con sagacità e intelligenza in quest’ambiente profondamente avverso. Per spezzare il cerchio si serve di alcuni alleati: la scuola – frequenta il terzo anno del liceo della scuola normale Estanislao Zeballos – che le serve come pretesto per coprire alcune scappatelle agli occhi dei genitori; la sua compagna di scuola Elena Serra, fidanzata del fratello latitante Alejandro, per mezzo della quale riesce a giustificare alcune uscite al di fuori dall’orario scolastico; e il fratello José che, all’insaputa dei genitori, l’aiuta pensando in questo modo di favorire la latitanza dei fratelli. Malgrado viva in una situazione così irregolare e instabile, Fina è un’alunna brillante.
I tratti della personalità di Severino emergono nella maniera più significativa dalle sue lettere d’amore, che presentano un ignoto aspetto poetico della sua discussa personalità. Le parole che quest’uomo di terribile forza e terribili reazioni scrive alla sua amata, quasi una bambina, saranno sempre semplici e romantiche. Due giorni dopo l’unione nell’amore di quelle giovani vite, Severino scrive:

“Domenica, 19 agosto 1928
Mia amica, ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze. Mai come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita. Prima vivevo le ore tranquille di Tantalo e ora, oggi, l’oggi eterno che ci ha uniti, vivo, senza saziarmi, tutti i sentimenti armoniosi dell’amore tanto cari a Shelley e alla George Sand. [...] Quando ti parlo di eternità – tutto ciò che il cuore ha voluto e amato è eterno – voglio alludere all’eternità dell’amore. L’amore mai muore. L’amore che ha germogliato lontano dal vizio e dal pregiudizio, è puro e nella sua purezza non si può contaminare e l’incontaminato è dell’eternità. Vorrei potermi esprimere sempre nel tuo idioma per cantarti ogni attimo del tempo la dolce canzone dell’anima mia, farti comprendere i palpiti che percuote fortemente il cuore, le delicate figurazioni del pensiero mio che di te invaghitosi non potrà mai dare il “finis” della sua elegia. Ma d’altra parte – io che credo che il mio amore è da te contraccambiato con tutta la possanza della tua gioventù ancora in bocciolo, l’ho letto tante volte sulle tue nere pupille – mi contento nel sapere che per comprendere queste linee debbono essere rilette più di una volta da te.”

Dopo una raccomandazione: “Tu non avrai tempo di scrivermi. Tu devi ancora dedicarti allo studio”.
Termina con queste parole di saluto:

“Baciami come io ti bacio. Rendimi duplicato il mio bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Sei l’angelo celestiale che mi accompagna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ribelle. Con te, ora e sempre. Tuo”

Per due anni gli amanti vivranno così, con sempre più nemici e con meno amici, perché il pericolo aumenta e il cerchio si stringe giorno dopo giorno. Solo l’amore e la passione permetteranno di vivere in un mondo diverso. Come in questa lettera del settembre 1928:

“Compagna mia, come al solito, anche quest’oggi ti ho aspettato. Sono le sei. Non verrai più. Domani è domenica, un altro giorno senza di te. Lunedì, chissà… Eppure vorrei vederti, star solo con te, raccontarci tante cose belle, parlare assieme, ridere un pochino, stringerci l’un con l’altro come due cose amate, farci domande, sognare a occhi aperti, tormentare il futuro, ricordare il passato e baciare il presente, il nostro presente. Oh com’è bello passare le ore insieme adesso! …soli, soli, soli!
Un amico mi ha regalato una bellissima edizione della Commedia di Dante, illustrata e commentata. Come vorrei leggerla tutta con te vicino a me! I passi sublimi della Francesca da Rimini abbracciata con il suo Paolo, mentre l’infernale bufera non ha la forza di separarli, tanta è la possanza dell’amore loro, dell’amore in generale. E la bellissima illustrazione di Gustavo Doré che li dipinge in tutta la delizia dell’amore, nella frenesia che sconfina oltre il sentire umano, oltre la tragedia, oltre la vita!…
Come sarà più bella leggerla con te vicino, vicino, vicino, così stretti fortemente e ogni tanto poterti anche dare tanti baci.
Ma tu verrai, mia bella compagna, la certezza della tua venuta mi rende felice in una maniera così grande, per esempio, come lo sarai tu, e quando verrai, leggeremo, vedremo, scorreremo, non le solo pagine della Commedia ma anche quelle più belle, più sublimi, più vicini a noi – perciò più palpitanti – del nostro amore immenso.”
di Marino Magliani
L’Unità, 26 novembre 2011Storia d’amore a d’anarchia
Ha scritto Alberto Prunetti sul suo profilo facebook: “La storia dell’anarchico Severino Di Giovanni di Osvaldo Bayer, il libro che forse ho amato di più nella mia vita di lettore, esce in un nuova edizione che ho tradotto e curato...”. E in effetti Severino Di Giovanni, nella nuova edizione di Agenzia X, merita quell’amore. Durante la dittatura di Videla era il libro più proibito, bruciato nelle piazze, mentre l’autore era in esilio in Europa. Una storia straordinaria, di amore e morte, di passione ribelle e passione sentimentale, di impeto utopico e pratiche crudeli.
Di Giovanni fu un anarchico italiano la cui parabola si svolse in Argentina, in maniera bruciante, a cavallo tra degli anni venti e trenta: un fervente antifascista in un’Argentina dove tra gli emigrati italiani il fascismo si faceva vanto della sua egemonia e delle sue conquiste, e un ribelle convinto che la rivoluzione si potesse fare indivualisticamente, armi in pugno. Anarchico espropriatore, Di Giovanni finì in un’empasse tragica con attentati e assalti alle banche che fecero vittime innocenti, causando anche una feroce divisione interna del movimento anarchico argentino. Bayer percorre tutta la sua storia lavorando sui documenti scritti e le testimonianze dirette, con in più la penna raffinata di uno scrittore che sa ripresentare gli eventi in tutta la loro vivezza.
Facendo risaltare la storia d’amore che legò Di Giovanni alla giovanissima America Scarfò, ripercorrendo le moltissime ardenti lettere che durante la clandestinità Severino scriveva all’amata: un amore tragico, impossibile – e pure inevitabile. Di Giovanni verrà catturato e messo a morte: come scrive Bayer, “rinchiuso in un circolo che lui stesso, con la sua rabbia e spontaneità, si è costruito e da cui non potrà uscire”.
di Marco Rovelli

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