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Sempre in barba al buonsenso

neutopiablog.org, 13 maggio 2024Carlo Massimino – Due montanti della madonna

C’era chi sosteneva che fosse sufficiente sostenere il suo sguardo un secondo di troppo, chi riteneva fossero bastevoli un paio di Campari a stomaco vuoto, affinché Alfio si gettasse senza ombra di esitazione in una mischia selvaggia, in risse a tutti gli effetti violentissime, forte dell’adrenalina e di una stazza pantagruelica, ma nonostante la maggioranza degli astanti in queste situazioni corresse a nascondersi al riparo da una furia cieca, per evitare di essere colpiti di spalle da una sediata o da un boccale di pinta rotto sulla nuca, c’era abbastanza sicurezza nell’affermare che tali episodi non avvenissero mai per rabbia o tristezza, no no. 
Alfio Buonuomo picchiava solo e soltanto per buonumore. Non la frustrazione, non il nervosismo sollevavano la sua mano, soltanto la grazia e l’amore per il gesto puro, la festosità che si prova nell’abbandonare il braccio a un colpo secco, un pugno chiuso con dentro l’accendino, per fare più male, come gli avevano insegnato da sbarbato in quartiere. 
Un’istruzione disfunzionale, un’infanzia consunta a legare raudi alle code dei gatti, a schizzare in monopattino per le vie del quartiere, a rubare le pesche ai fruttivendoli, con sporadiche vacanze in collegi maschili, l’età adulta gli era ingiustamente precipitata addosso, senza che egli avesse commesso alcunché in particolare per meritarsi tale condizione, che lui percepiva appunto come una vera e propria ingiustizia, e della quale non aveva ravvisato alcun sintomo prodromico, come avviene invece per le altre malattie. E come una malattia aveva provato a trattarla, provando a guarirla nei baretti, nelle contusioni e nei futili motivi. Era venuto su come uno spinacio selvatico, fra labbri rotti e slogature, e improvvisamente si era ritrovato adulto. Solo a quell’età aveva ormai fatto propria la consapevolezza che la rissa era una festa, una dimensione gioiosa, un’espressione di pura vita e sentimento, e pertanto andava goduta, e solo il buonumore era la leva necessaria a rendere un combattimento un buon combattimento. Tuttavia, sapeva anche che la differenza fra un picchiatore amatoriale e un vero combattente si ha solo nell’esercizio e nel duro allenamento. Si trova ovunque gente che sa menare, a qualsiasi bar o angolo di strada: la vera separazione fra loro e gli altri, diceva, era il colpo elegante, armonico. Fondamentale è il respiro, non affannato né eccessivamente rilassato. È necessario a indurire il petto e a preparare il muscolo. Per arrecare un buon diretto, sono richiesti lombari allenati e obliqui scattanti. Persino i polpacci, solitamente trascurati dai picchiatori occasionali, sono propedeutici a una buona esecuzione. Di conseguenza, bisogna allenare le gambe per tirare un montante che stenda. La forza viene da terra, dal saltello. Gli adduttori, i bicipiti, il quadricipite femorale, devono avere la stessa identica consistenza, acciaiosa. Poi la spalla, a mo’ di pistone, serve a preparare il colpo che parte dalla torsione del busto. Gli arti superiori vanno lanciati in linee rette, segmenti precisi, secchi, di precisione goniometrica. E infine la postura: essere scattanti, danzare sulle punte, ma non come un’ape o una farfalla, animali leggiadri, aggraziati, ma anzi come un cane da presa, schiumante di rabbia, incattivito dalla catena. 
Questa consapevolezza, questa poetica della rissa, l’aveva affinata negli anni, e non certo in solitaria, anzi, accompagnato dai soliti teppisti di zona. Li potevi trovare sempre nello stesso bar, seduti ai tavoli in plastica fuori dal bar Varnelli, disposti in fila orizzontale, oppure a fumare i cilum sui motorini in largo Fatima. C’era Vito, il figlio del macellaio, calvo e con due baffoni neri, che si esprimeva a mugugni, abituato più a che fare coi manzi surgelati appesi al gancio che coi cristiani, o Riccardone detto L’Animale, che beveva due litri di caffè al giorno ed era sempre nervosissimo e a un certo punto tutto quel caffè gli aveva forato lo stomaco, sicché ora beveva solo decaffeinati, una tortura, e ciò lo indispettiva al punto che, inaugurata la rissa, non interrompeva lo scontro fino a quando l’avversario non era a terra privo di sensi, o ancora Robertino detto il Pazzo, che era nato settimino tirato fuori col forcipe, e questa cosa gli aveva deformato la testa conferendogli una sembianza da bull terrier e un’inusitata necessità di violenza. Eppure, di tutti loro, Alfio era indubbiamente il più carismatico e il più micidiale nelle risse, forte delle mani grosse come padelle e del collo taurino, sul quale cascavano gioiosi lunghi boccoli ricci di colore castano. Conosciuti da tutti nel quartiere, temuti e disprezzati allo stesso tempo, si erano stabiliti al Varnelli solo perché unico bar a non averli ancora allontanati – naturalmente, solo e soltanto per paura di ritorsioni. Per anni si erano ritrovati al pub del Siluro, un ritrovo di modernisti, arredato in stile anni settanta, con motivi geometrici colorati e un giradischi che suonava tutto il giorno musica soul, che ad Alfio dava sui nervi, fino a quando Robertino non aveva infilato uno di questi maledetti modernisti nella vetrina, dalla testa, ed erano stati banditi a vita, con tanto di foto appesa al bancone. 
Intorno a loro gravitava una galassia aneddotica sconfinata. Si raccontava di una volta in cui si erano scontrati con una comitiva di irlandesi, gente di buona bottiglia e dalle mani ruvide, e la banda di Alfio li aveva letteralmente massacrati, in particolare Fabietto ne aveva conciato uno mica da ridere, l’aveva praticamente ammazzato, e pare si fosse fermato solo all’ultimo, poiché ricordatosi che gli irlandesi erano cattolici, come la sua mamma. 
Un’altra volta, pare che il Tallo, imbottito di speed come un gerarca nazista, innervosito da un litigio con la fidanzata, avesse caricato da solo un pullman di ultras della Cremonese incontrato fortuitamente all’autogrill. Oppure, le centinaia di manifestazioni studentesche, di precari, di operai in sciopero, cortei anarchici, comunisti, contro il nucleare, contro la TAV, ma anche commemorazioni fasciste, presidi revanscisti, anti-immigrati, cui aderivano esclusivamente per potersi scagliare contro la polizia e avere dei degni avversari, o più che altro meglio equipaggiati, con cui scontrarsi per qualche ora. Tuttavia, occorre precisare che da questa fitta ridda di episodi violenti non aveva prodotto solo panico nel vicinato, c’era stato anche chi aveva provato a trarne profitto. Un giorno, si era presentato al Varnelli uno strano tizio in giacca e cravatta, alto un metro e mezzo, con un’ampia pelata al centro della testa e una voce da crooner, il quale aveva provato a scritturare il gruppo per i suoi incontri di pugilato, che si svolgevano di notte nel seminterrato del suo ristorante. Più che pugilato, in realtà, si trattava di combattimento tra cani, pittbull, rottweiler e dogo argentini, cani da presa dalla morsa letale, bestie ferocissime, fino a quando il tizio non aveva saputo che in quartiere vi era una banda di picchiatori fenomenali, roba da non crederci gli avevano detto, una batteria di psicopatici che menava come fabbri, solo ed esclusivamente a mani nude, al che gli era venuta l’idea di ingaggiarli per farli lottare contro i suoi cani. L’allibratore aveva avuto una certa fortuna, dal momento che quando era sopraggiunto al bar per la sua proposta, Alfio fosse assente, impegnato a cancellare le scritte sui muri per conto del comune, poiché stava scontando i servizi socialmente utili per aver tirato una sberla a un vigile, un paio d’anni prima: probabilmente, all’idea che qualcuno osasse infangare la nobile arte della rissa con dei soldi, Alfio gli avrebbe riversato contro una considerevole quantità di botte. 
Gli altri, invece, scorgendo nella proposta una facile opportunità di remunerazione, avevano presto accettato. La sera stessa, entrando nel seminterrato, avevano trovato una quantità inaspettata di persone, tutti sudamericani sovrappeso e con le birre in mano. La stragrande maggioranza delle puntate era a favore dei cani: d’altronde, il pubblico già fidelizzato, non poteva certo scommettere su quattro bruti a mani nude. Eppure era bastato il primo incontro, con Robertino detto il Pazzo – scelto tra i prodi forse perché quello maggiormente somigliante a un cane – contro un molosside di nome Carlo Magno, enorme, che schiumava dalla bocca, per convincere gli astanti dell’errore: come il cane, iniziato l’incontro, aveva provato ad assalire Robertino al viso, questi con la forza del solo braccio sinistro l’aveva braccato e dunque strozzato, per poi gettarlo morto in mezzo alla folla, con uno scrosciare di applausi eccitati. Per l’allibratore, la perdita era stata ingente, e la stagione degli incontri clandestini coi cani si era conclusa la prima sera. Eppure, al netto di quanto convenzionalmente si possa pensare circa un gruppo di bruti picchiatori, non risultavano repellenti al genere femminile. Anzi, erano quasi sempre accompagnati da donne. Generalmente si chiamavano tutte Sonia e Giada e grossomodo si assomigliavano tutte: portavano capelli lisci come spaghetti, indossavano sempre stivali bianchi e si ricoprivano il volto di brillantini. Al posto che essere, comprensibilmente, disgustate dalle condotte testosteroniche, vedevano nello scontro fisico e nella supremazia dei loro, motivo di vanto, di conferma nella loro scelta secondo i crismi della legge di natura, secondo la quale chi è più forte è destinato a sopravvivere, meritevole di ingravidarle. E allora accompagnavano le risse con grida e strepiti, tifando, e se l’occasione non portava a uno scontro, si mettevano di buona lena a favorirlo, e quindi tentavano di attaccare bottone con alcuni estranei, cui magari chiedevano una sigaretta o verso cui facevano l’occhiolino, al fine di provocare la rabbia straripante dei loro uomini. Di tutti loro, l’unico costantemente spaiato era Alfio, che vedeva nelle donne un pericolo, una distrazione dall’impegno principe, la rissa, poiché volubili, imprevedibili, e soprattutto perché in più di una circostanza, dettata da gelosia o altre questioni irrisorie, le donne erano state causa di litigio e conseguente alterco fra i ragazzi. L’unica donna della sua vita, manco a dirlo, era la Bruna, la sua mamma. Mentre tutti gli altri si erano incattiviti in giovane età per le precarie condizioni sociali, i genitori assenti, la vita nelle case popolari, le disfunzioni nella comprensione, i problemi scolastici, per Alfio la vera palestra di vita, e di rissa, era stata la Bruna, una signora piccina, gentile, ma che se si arrabbiava le suonava di santa ragione, e quand’era piccolo gliene aveva date quant’è vero il Signore, con le ciabatte e con la cinghia, seppur così minuta, due mani che schizzavano come diavoli, e per Alfio, il solo pensiero di accompagnarsi a una donna gli pareva un tradimento, nei confronti della mamma e della rissa, le due cose che gli erano più care al mondo. Oltre che per le donne, Alfio aveva una forte avversione anche verso altre cose, come il lavoro e i soldi, e in particolare verso la combinazione delle due, il lavoro salariato, la cosa peggiore che si possa fare a un uomo. Privarlo del suo tempo, della sua grinta vitale, della sua passione: questo era il lavoro. 
Quando si è al lavoro bisogna ubbidire, bisogna rispettare degli orari, e soprattutto non si può picchiare nessuno, mai!, in particolare chi ti dà degli ordini. Tutto ciò, con pieno afflato e comprensione di causa, l’aveva tenuto lontano dal lavoro per i quasi trent’anni che gli dimoravano in corpo. Finché un giorno, con l’imprevedibilità di una sciagura, Fabietto si era presentato al bar, di un pallore cadaverico. 
– Vito, pensaci tu – aveva detto, porgendogli una pallina di fumo, lasciando intendere che la delega alla fabbricazione preannunciasse un discorso da fare. 
– Ragazzi, – proseguì – la Giadina è incinta. 
Si diffuse fra gli astanti un silenzio cimiteriale. 
– E come diavolo è potuto capitare? – chiese Robertino, che quanto a immaginazione non era il più forte del gruppo. 
Alfio inarcò le spalle, trasse un respiro profondo e con profonda saggezza sentenziò: – Come una rissa, la vita a volte è imprevedibile. 
Quindi accadde che Fabietto, trovandosi da un giorno all’altro una famiglia da mantenere, aveva preso a lavorare con suo zio e la mattina si alzava all’alba e andava a scaricare le casse di frutta al mercato comunale. Smise quasi di andare al bar, giusto ogni tanto compariva, stremato, la bimba piange diceva, e a me tocca di dormire tre ore per notte, la Giadina è ingrassata di quindici chili e non si scopa nemmeno più, e non ho nemmeno qualcuno da picchiare. 
Agli occhi degli altri, Fabietto era stato come condannato a morte. Lo vedevano ogni tanto, col passeggino, che portava la bimba in giro per il quartiere, con l’aria di chi è abituato a vivere col diavolo sotto al letto. Ma non fu l’unica disgrazia che capitò in quel periodo. Un giorno, mentre tutti erano seduti ai soliti tavolini a consumare la noia, comparve Robertino, con in viso un’espressione derelitta. Scostò l’impermeabile giusto per mostrare il braccio destro, ingessato, dopodiché lo nascose subito di nuovo. 
– Ho litigato con uno per un parcheggio e mi ha suonato come un tamburo. 
Per il gruppo, la notizia ricevuta fu anche peggiore della gravidanza della Giadina. Faccende del genere, piccoli intoppi sul cammino della vita, sono cosa nota, e a ognuno sta decidere su che scala di gravità collocarle: famiglia, galera, lavoro. Ma quanto a perdere il proprio talento, l’unica piccola capacità che si è mai posseduta, nello specifico il picchiare, picchiare forte e vincere sempre, quella sì che era una disgrazia. Seppure era Robertino l’unico che era stato menato, e questo non precludeva agli altri di essere ancora padroni della propria abilità, per il gruppo fu come se ognuno di loro fosse stato umiliato, sbeffeggiato, irriso di fronte alla vita. Questo cambiò per sempre la percezione che ebbero di se stessi, come singoli e come banda. 
C’era un tale che faceva il capocantiere e gestiva una batteria di muratori albanesi, che saltuariamente si presentava al bar per bere un caffè. Era solito, con una certa dose di coraggio, sfottere Alfio e i suoi, abituato a vederli sempre lì, come lucertole al sole. 
– Sempre qui a non fare un cazzo, eh – ridacchiava. 
Così, un giorno, senza troppo aggiungere, aveva detto loro: – Ho bisogno di un paio di braccia robuste in cantiere. Anzi, anche un po’ più di un paio. Cinquantamila al giorno, si inizia domani. 
– Per cinquantamila al giorno non alzo nemmeno la cornetta – aveva glissato Alfio, e la questione per qualche tempo parve essersi chiusa. 
Poi, un pomeriggio, videro il Molla, che tutti chiamavano così perché tanto quanto le risse amava andare a ballare, e quindi era sempre agitato, su e giù, come una molla, comparire al bar coi pantaloni sporchi, ricoperti di macchie di gesso e calce e stucco, che senza dire niente si prendeva un Campari al bancone e andava a sedersi fra loro, come nulla fosse. Agli sguardi sbigottiti degli amici, aveva risposto che c’aveva da pagare un affitto, che suo fratello era dentro e che a lui sarebbe toccato di portare a casa qualche soldo. Quindi, in poche parole, era andato a lavorare in cantiere. Sulle prime, nessuno la prese bene. Un conto era Fabietto, che si era ritrovato da un giorno all’altro a dover provvedere a una creatura. Ma per lui, diavolo, c’erano ben altre possibilità oltre la schiavitù del lavoro. 
Sicché Alfio e i suoi continuarono a spendere i pomeriggi al baretto come sempre, ma con la percezione che qualcosa fosse ormai irrimediabilmente cambiato. Solitamente, il lavoro e l’età adulta costituiscono un connubio indissolubile, eppure Alfio non poteva fare a meno di pensare che il Molla e gli altri si fossero spontaneamente messi un cappio al collo prima ancora della condanna. Era incredibile, per lui, pensare che i suoi compari di una vita, cavalli purosangue nel combattimento di strada, fossero diventati dei lavoratori. Nel frattempo, però, costruivano nuovi palazzi, tutt’intorno si affastellavano cantieri su cantieri, le ragazze portavano sempre meno le magliette corte con l’ombelico scoperto, e insomma fu evidente per tutti, specie per Alfio, che qualcosa fosse cambiato, anche se sulle prime non fu immediatamente chiaro che cosa. In breve tempo, al baretto quasi non ci andava più nessuno. Alfio fingeva indifferenza, ma era chiaro che l’assenza degli altri gli pesasse. Dacché negli anni il loro gruppo aveva costituito una parte fondamentale nella tappezzeria del bar, sempre lì a bere o a spendere i pomeriggi, in poco tempo si ritrovarono solo lui, Umbe e Marietto, che però non avrebbe potuto fare altrimenti, dal momento che quando aveva vent’anni una macchina in fabbrica gli aveva tranciato due dita e ora non poteva più usare la mano destra. Così, un giorno, vinti dalle circostanze, anche lui e Umbe avevano deciso di andare al cantiere. Diavolo, quasi gli suonava assurdo dirlo ad alta voce: in poche parole, di andare a lavorare. 
Bastava presentarsi al piazzale alle cinque di mattina, e sarebbe passato un camion a tirar su chi avrebbe lavorato. Quando arrivarono, c’erano già tre o quattro albanesi e una coppia di nigeriani. Quando gli altri li videro, increduli, dovettero trattenersi dal commentare o esibire reazioni troppo manifeste: Alfio aveva un’espressione derelitta in volto, e non c’era bisogno di aggravare il carico. Il lavoro era duro, ed essendo lui appena arrivato, l’avevano messo a girare la malta. Fabietto aveva imparato a usare la betoniera, mentre Riccardone, che aveva nelle braccia una forza disumana, si era specializzato nei ponteggi, che reggeva da solo, oppure montava le impalcature. Gli albanesi, che gli altri in poco tempo avevano imparato a detestare, poiché prepotenti e sanguigni, si incazzavano per un nonnulla, tutti i giorni poi, si dividevano al maleppeggio e a tutti gli strumenti che presupponevano il gesto di picconare, che a quanto pare si confaceva in maniera sorprendente alla loro caratura balcanica. Poi, verso le quattro, cinque, tutti a casa, ma Alfio era così stanco da addormentarsi sull’autobus al ritorno, con la pelle arsa, tirata dalla polvere, e alla fine si ritrovava sul divano a guardare la televisione con sua madre, stanco morto, a sperare anche lui di vincere a un telequiz, come un lavoratore qualsiasi. 
Una mattina, si era sorpreso nel raccontare a uno nuovo, un giovane polacco con la faccia cattiva, di tutte le risse fatte negli anni. Non che la cosa costituisse una novità, non esiste rissa o scopata se non viene raccontata, ma la differenza era il tono passatista e nostalgico con cui ne parlava. Mai prima d’ora aveva provato così tanta vergogna per se stesso, nemmeno quella volta che per mettere al suo posto un tale, col rovescio della mano aveva per errore colpito una tipa, e gli era dispiaciuto così tanto da smettere immediatamente di picchiarlo, e aveva pure fermato un indiano che vendeva le rose e ne aveva comprata una alla signorina. Anche Umbe esibiva i primi cedimenti. Alfio non se ne era accorto subito, gliel’aveva detto Fabietto, che nella cabina dell’escavatore aveva trovato una bottiglia vuota. 
In cantiere bevevano tutti, non era certo una sorpresa, specie nei mesi invernali o quando si deve scavare in profondità. Però Umbe era davvero sempre ubriaco, ogni tanto camminava storto sul ponteggio, e gli altri dovevano insistere perché tornasse giù, magari a fare la posa di mattoni, ma non gli lasciavano certo usare il trapano o salire sulla carrucola. Finché con profondo senso di responsabilità, o di amicizia, che dir si voglia, per quanto virilmente meno accettato, Fabietto e Alfio erano andati a parlare col capocantiere, che a dirla breve non se ne era curato troppo, anzi proprio per niente, ’sto figlio di puttana, aveva detto che a lui importava meno di zero, che per lui uno valeva uno, e che se Umbe era ubriaco tutto il giorno erano cazzi suoi, e che lui il giorno dopo avrebbe trovato un rumeno che chiedeva meno soldi, faceva più fatica e non rompeva i coglioni, e Alfio per un istante ebbe la tentazione di reagire come ai vecchi tempi, caricare le spalle e flettere il corpo, colpirlo con una testata secca, frontale, e spaccargli il setto in più punti, così tanti che il chirurgo avrebbe dovuto fare un puzzle per metterlo a posto. Eppure non era andata così, si erano trattenuti, gli avevano detto solo va bene Emiliano, ci faremo i cazzi nostri, muti come le pietre che ci fai rompere per cinquantamila lire al giorno. 
Finché una mattina, poco dopo l’alba, mentre la notte scura schiariva scoperchiando un cielo biancastro e lattiginoso, Umbe senza dire niente a nessuno era salito sul ponteggio più alto, quello del sesto piano ancora in costruzione, e gli altri l’avevano visto da sotto, che camminava sbilenco, dinoccolato, e in pochi secondi l’avevano visto cadere giù, come un Icaro ubriaco, come un corpo morto cade, e prima che fosse arrivata l’ambulanza Umbe era già morto, disteso nella polvere. 
Al funerale c’erano tutti. Robertino, Marietto, Riccardone, persino Fabietto con la bambina, che nel frattempo aveva preso a parlare e chiedeva cosa fosse successo, e Fabietto le aveva detto che era volato in cielo con gli angeli, perché quanto a eloquio non era un fulmine e a spiegare a una creatura cos’è la vita, cos’è la morte, non era troppo preparato. C’erano tutte le Sonia e le Giada, e c’era anche la Mirella, che quando erano ragazzini una volta gli aveva fatto una sega al cinema, davanti a tutti, e quando lei gli aveva chiesto come dovesse muovere la mano, lui aveva risposto forte, forte, come quando tiri il collo a uno per strozzarlo, e tutti avevano riso, e l’avevano sfottuto per anni per questa cosa. Alfio era stato in fondo alla navata della chiesa tutto il tempo, e non aveva portato la bara a spalla insieme agli altri, e non si era unito a loro nemmeno quando in lacrime avevano versato per terra un sorso di Campari a testa, alla memoria del vecchio Umbe. 
Si era limitato a stare da solo, a commuoversi, a sentire la pellaccia inspessirsi e indurirsi ancora una volta di fronte agli urti della vita, che a volte colpiva in maniera infame, con due montanti della madonna, e poi si era allontanato, da solo, mentre scendeva la sera, che la Bruna aveva già buttato la pasta, e il giorno dopo doveva andare in cantiere. 

Illustrazione di Marcello Mosca
Tratto da Sempre in barba al buonsenso, Agenzia X, 2024

Carlo Massimino è nato a Milano nel 1993, dove vive e lavora come libraio. Ha fatto l’operaio disinfestatore, l’attore cinematografico e ha cantato in gruppi punk.

Il libraio, 7 giugno 2024 Sempre in barba al buonsenso: le fiabe nere metropolitane di Carlo Massimino 

Sempre in barba al buonsenso, esordio di Carlo Massimino, è una raccolta di racconti di inventiva sfrenata, ambientati in una Milano magica e sospesa nel tempo, eppure attuale. L’epica pazza e miserabile dei quartieri di periferia si fonde con la luce della giovinezza e il racconto di avventure, amori e peripezie che parlano di una realtà tanto tetra quanto viva e appassionata…
Chi ha vissuto intensamente una città, non importa per quanto tempo, se ne costruisce una mappatura passionale. Sovrappone ai luoghi concreti il disegno delle proprie avventure, restringe e allarga a piacimento gli spazi e popola le strade e le vie di legioni di fantasmi familiari, di figure inquietanti emerse dai ricordi, dalle peripezie e dagli amori. 
Vede storie in ogni angolo e queste storie sono spesso strane, a volte ridicole o nerissime, e parlano tutte della vita che c’è e di quella che c’è stata, sembra svanita ma esiste ancora nei racconti che si fanno di bocca in bocca e diventano epica ingigantita e stravolta. 
Sempre in barba al buonsenso, esordio di Carlo Massimino edito da Agenzia X, ha questi tratti. 
La definizione di realismo magico è indubbiamente calzante per questa raccolta di racconti ambientata in una Milano sospesa nel tempo e indefinita, che non può essere vera e allo stesso tempo non si potrebbe certo dire falsa. Un luogo dove i riferimenti conosciuti (i nomi dei quartieri, le periferie dissestate e quelle residenziali, la circonvallazione) possono convivere con boschi abitati da gigantesse dai quali ci si può fare iniziare all’amore o invece trasformarsi all’improvviso nello scenario di un incubo. Ci sono, in queste pagine, i personaggi più disparati: picari abietti dediti a una vita di espedienti, punk senz’arte né parte costretti a cercare nelle vecchie favole la soluzione ai loro debiti, professori di liceo dall’aria luciferina, famiglie disastrate che rincorrono un orizzonte di riscatto, picchiatori di quartiere stretti da un’amicizia furiosa e minacciata dall’incombere della quotidianità o una bellissima ragazza sedicenne “che si diceva che nei pomeriggi di sole accompagnasse il prete a benedire i morti”. 
La scrittura di Massimino li fa muovere, costringendoli a correre dietro a chimere intangibili o spinti da concretissime necessità di sopravvivere. Non perde mai l’ironia ma non per questo rinuncia a mettere in scena situazioni cupe o dolorose. Racconta, soprattutto, ha l’urgenza e nello stesso tempo il gusto di raccontare: come si fa in letteratura tanto quanto nei bar di quartiere o in una compagnia di amici, dove gli aneddoti memorabili tramandano le leggende minime e sterminate delle creature umane. 
Una luce attraversa tutti i racconti, si posa a illuminare gli angoli più sporchi della Milano fantasma. È la luce delle figure mitiche, come il protagonista del Breve ma inevitabile encomio del furbissimo Penny Duchamp. La luce che nella violenza tiene insieme Alfio Buonuomo e i suoi picchiatori in Due montanti della madonna, prima che la vita così come la conosciamo arrivi a chiedere il conto. 
La luce che balena un attimo prima della fine come nel vertiginoso racconto breve L’uomo che uccise Liberti Valerio. Ma è anche, spesso, una luce bassa e tagliente che dietro queste storie di inventiva sfrenata accenna a qualcos’altro, alla nostalgia per qualcosa di perduto, indefinibile ma presente. Un posto dove si è stati più felici, dove si vorrebbe tornare o che non si vorrebbe lasciare andare. 
Spesso i personaggi dei racconti di Massimino hanno un passato incredibile, contengono dentro di sé una quantità di altre vite, riverberi delle storie che hanno attraversato. 
Nel folgorante racconto di apertura, Una fine miserabile, il passato felice assume i contorni disturbanti di una sposa bambina. E in Intensità sono i due protagonisti Tippete e Annina a restare sospesi tra il sole di una giovinezza che trabocca e l’ingresso in un territorio ben più desolato. “‘Siamo normalmente portati a pensare che un giorno potremo essere chi vogliamo, diventare ciò che desideriamo. Ma non succede che in rari casi. Per tutti gli altri, per le persone comuni, la crescita non è che una perdita’. ‘E che cosa esattamente si perde?’ ‘La vita degli adulti è tutta una spesa o una perdita’”. 
Ma di tutto questo si può anche ridere, si deve ridere. Si ride delle disavventure pulp del protagonista di Tutte le famiglie senza una lira o di quelle del giovane inetto che in Una vita per il cinema cerca disperatamente il modo di trasformare la propria vita in un’opera d’arte mentre “il mondo sembrava gravitasse rapidamente attorno alla sua fine, come fanno i moscerini che svolazzano bruciacchiati intorno alle lampade”. 
Fa ridere anche il dramma dai risvolti esoterici che vive la giovane madre di Una gran brutta febbre, mentre scopre il lato letteralmente demoniaco dell’istituzione scolastica. Un riso che non risana le ferite di una realtà tetra ma le mette ancora più in mostra, giocando con lo stupore e la meraviglia. 
Tutte le figure che danzano insieme nei racconti di Sempre in barba al buonsenso sono perturbanti perché spostano e deformano i luoghi usuali della città riconsegnandoceli in una veste magica che proprio per questo riconosciamo come nostra. In queste pagine di fiabe nere metropolitane ritroviamo i nostri amori, le nostre audacie e miserie, le tracce delle avventure passate e il desiderio di viverne (e raccontarne) altre.

di Niccolò Bosacchi

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