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L’edicola che non c’è
Ellin Selae, agosto 2021 L’edicola che non c’è
Sin dagli anni ‘60 è sempre esistita in Italia, come in buona parte del mondo, una stampa underground, parallela a quella industriale, nella quale confluivano idee e creatività che non avrebbero altrimenti trovato spazio. Alcune di queste riviste sono poi diventate punti di riferimento di importanti cambiamenti cul-turali, almeno durante la stagione delle grandi contestazioni. Ogni decennio ha avuto la sua fioritura di riviste nuove e alternative (anche Ellin Selae nacque nel 1991 a Milano da que-sto humus) sino agli anni recenti in cui, il sorgere del web ha messo a dura prova la carta stampata. Questo volume raccoglie gli studi e i risultati dell’esposizione temporanea di “L’edicola che non c’è”, realizzata nel no-vembre 2019 sotto la fermata della metropolitana Duomo, durante il festival Bookcity. Tre giorni di mostra e incontri con redattori e attivisti di queste straordinario mondo della stampa underground, dove il folto pubblico ha potuto toccare, sfogliare e apprezzare più di trecento riviste pubblicate a Milano dagli anni sessanta a oggi. La domanda al centro di que-sta ricerca è: cosa succederà nel mondo editoriale? La carta finirà nei solai della storia? Se si osserva la società dall’alto dei consigli di amministrazione della Silicon Valley o del quartiere di Pechino Zhongguancun la risposta è scontata, ma se rivolgiamo lo sguardo verso il basso si può notare l’enorme autoproduzione di riviste, fanzine, giornali e opuscoli pubblicati in questi ultimi mesi a livello internazionale. Le riviste underground sono ineguagliabili strumenti per rigenerare una società immobilizzata dalla pandemia, soprattutto perché non hanno mai conosciuto frontiere geografiche, di classe, di genere o di razza. Da sempre hanno prodotto un’infinità di idee e spunti rivolti alle fasce più deboli, elaborando un’originale funzione educativa alternativa, capace di ricercare nuove ecologie di convivenza civile e lanciare un messaggio sociale contro le diseguaglianze. Sfogliando il libro e ripercorrendo la storia di questo regno sommerso delle idee (che per alcuni è anche un viaggio nella propria gioventù), si riprende un po’ di coraggio, in un momento in cui lo strapotere degli smartphone sembra ormai consolidato. Le riviste underground sono libere di girare per le strade e sono in grado di abbattere le pareti divisorie delle nostre case e quelle del web. Perché la storia non la scrivono solo le star del mainstream... «Ogni volta che uscite da casa alla mattina, avrete senz’altro capito che oltre all’edicola, tutti quei preziosi ruoli di interazione tra passanti e strada stanno scomparendo, inghiottiti dalla famelica leggerezza della smartcity. Pochi negozi sopravvissuti, niente bigliettaio, caffè alla macchinetta e nessun autista alla guida dei vagoni della metropolitana. Eppure... Nella desolante realtà che vi circonda, dove la stragrande maggioranza delle persone che condividono con voi il breve viaggio sta guardando il telefono, potrete notare che almeno la metà sta scrivendo o leggendo messaggi. Anche se può apparire paradossale, i nativi digitali leggono di più dei loro antenati fedeli al rito laico del recarsi in edicola ogni mattina, stanno lì i quarti d’ora a muovere veloci come atomi impazziti i loro polpastrelli su quelle minuscole tastiere digitali. Cosa avranno mai da scrivere? Quali sensazioni provano mentre stanno leggendo? Sicuramente gli manca appunto un luogo d’incontro dove indugiare, passando magari qualche minuto nella speranza di incontrare un amico, un conoscente, per scambiare anche poche impressioni prima di affrontare le frontiere del nuovo giorno. Sicuramente gli manca il contatto fisico con la carta e quello stesso particolare odore del giornale appena stampato, ma soprattutto non sono consapevoli che al giorno d’oggi la parola scritta ha occupato un lasso di tempo paragonabile a quello che una volta usavamo per parlare. Tra i dannati di WhatsApp e co. sono perciò in molti coloro che cominciano a capire Inforza introspettiva della scrittura, l’incredibile capacità della lettura di creare mondi invisibili ed emozioni coinvolgenti, probabilmente hanno spesso la spiacevole sensazione di sprecare in un certo senso tempo ed energie, di buttare i propri pensieri immediatamente nel cestino virtuale del proprio aggeggio elettronico, o al massimo in ma sorta di diario personale e auto-referenziale, limitandosi a scrivere poche frasi nel tentativo di sbalordire per emergere a qualsiasi costo fra impersonali like e insulti, caratteristici dei social. Ma la scrittura è qualcosa di più impegnativo, e di più affascinante; quando si sente l’esigenza di mettersi di fronte alla pagina bianca per trasformare il caotico flusso di coscienza in narrazioni e concetti con una propria forma, viene sempre di chiedersi chi leggerà mai nel tempo le frasi che vanno ad accumularsi. A questo punto diventa fondamentale il supporto della pagina stampata, imperitura testimonianza materiale, e non virtuale, del proprio processo creativo. Come diceva Beppe Fenoglio lo scrivere è fonte di soddisfazione, così come di logoramento: "Scrivo per una infinità di motivi. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La mia pagina più facile esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti".»
il manifesto, 10 giugno 2021 L’ecologia dei media? Un futuro in fanzine
Memoria ribelle. «L’edicola che non c’è. La stampa underground a Milano» (Agenzia X). L’età d’oro delle riviste che davano voce a urgenze esistenziali e politiche: una mostra e un libro. C’era «Pianeta fresco», su progetto di Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass, con Allen Ginsberg come «direttore irresponsabile»: rielaborava suggestioni psichedeliche d’oltreoceano.

Fra le fermate della metro di Cordusio e Duomo c’è un sottopasso. Quasi nessuno lo utilizza. Lo costeggiano vetrine di negozi sfitti da tempo immemorabile. La spettralità che durante le pandemia ci siamo abituati ad associare agli spazi pubblici apparteneva da tempo a quei corridoi. Tuttavia, in occasione di Book city, l’ultima «in presenza», vi si poteva notare un’insolita animazione.
In uno dei negozi era stata allestita L’edicola che non c’è, su iniziativa di Moicana, il centro studi sulle controculture ideato da Nicola del Corno e Marco Philopat. Sugli scaffali, realizzati a partire da un progetto-istallazione di Joykix, si trovavano esemplari di riviste underground milanesi prodotte dagli anni Sessanta a oggi. Agli originali si affiancavano le riproduzioni, per dare modo a chi passava non solo di guardare ma anche di sfogliare, compulsare, leggere. A orari fissi, poi, partiva la discussione, attraverso le testimonianze di coloro che di quelle esperienze editoriali erano stati protagonisti.
All’evento si è affiancato un lavoro di digitalizzazione, per mettere a disposizione i materiali raccolti, con l’auspicio che l’archivio possa ampliarsi andando oltre la dimensione milanese ed entrando in risonanza con esperienze come la Fondazione Echaurren Salaris (si veda il manifesto del 14 maggio).
Dopo un paio di anni esce anche un libro: L’edicola che non c’è. La stampa underground a Milano (Agenzia X, pp. 224, euro 15). Il volume si struttura attorno a uno scarto generazionale: a scrivere sono autori che parlano di riviste e fanzine uscite, in genere, quando non erano ancora nati. Si tratta sensibilità diverse – militanti, artistiche, storiografiche – aggregatesi intorno all’allestimento della mostra e alle interazioni che la hanno accompagnata. Da qui uno sguardo particolare, distanziato, esente da nostalgia e selettivamente curioso rispetto a forme e contenuti che hanno caratterizzano la stampa underground milanese.
I diversi contributi cercano di restituire un quadro esauriente delle realizzazioni ascrivibili all’ambito sottoculturale. L’attenzione, però, inevitabilmente tende a soffermarsi sulle riviste che hanno lascito il segno.
L’antefatto non può essere che La zanzara, il giornale scolastico del Parini, i cui contenuti relativi alla sfera della sessualità e della soggettività femminile, nel 1966, suscitarono uno scandalo che segnalava l’aprirsi di una nuova epoca. La fase aurorale della controcultura è ben esemplificata dalle affinità e divergenza fra due riviste.
Da una parte un prodotto di strada come “Mondo Beat” (con le relative gemmazioni), realizzato da «scappati di casa» (letteralmente) che danno voce alle loro urgenze esistenziali e politiche tramite i mezzi a loro disposizione; dall’altra, nello stesso periodo, un oggetto meraviglioso come “Pianeta fresco”, rivista progettata da Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass, con Allen Ginsberg come «direttore irresponsabile», che rielabora in maniera originale suggestioni psichedeliche provenienti da oltreoceano.
Nel decennio successivo spiccano “Re nudo”, la controcultura che cerca di farsi canone politico, “Rosso”, che ibrida la rivista militante con la dimensione underground, “L’erba voglio” che, intorno alla figura di Elvio Fachinelli, cortocircuita saperi critici dissonanti e invenzione istituzionale. Si tratta di riviste che avranno un grosso impatto sul presente, non così un’“Ambigua utopia”, animata fra gli altri da Antonio Caronia, che, incentrata sull’immaginario fantascientifico sembra alludere a una sensibilità successiva, rivisitando criticamente i futuri passati nell’imminenza del no future.
L’attenzione nei confronti della fantascienza, nella declinazione cyberpunk, coniugata a una scommessa sugli scenari della rivoluzione digitale, caratterizzerà in seguito “Decoder”. Ci troviamo oltre la cesura degli anni Ottanta e “Decoder” appare come una sorta di sintesi del proliferare di fanzine, fra Diy punk e sfumature dark, che scandisce i tentativi di una nuova generazione di elaborare i propri canoni di dissidenza dopo l’esaurirsi del «lungo Sessantotto».
Al volgere del millennio interviene una nuova cesura: l’avvento del web e dei social media, spiazza il format della rivista cartacea. Si tratta della problematica che investe gli interventi focalizzati sulla produzione più recente. Se nel primo decennio degli zero-zero si consuma anche in ambito underground, in termini non solo quantitativi, la fase più acuta di crisi della forma-rivista, a partire dagli anni Dieci, forse inaspettatamente, si manifestano tutti i segni di un ritorno del cartaceo sotto svariate forme.
Che si tratti di un semplice sussulto nostalgico oppure della definizione di un nuovo territorio, nell’ecologia dei media contemporanei, in cui trovi espressione la potenza di irritazione delle fanzine a venire è l’interrogativo finale che ci consegna L’edicola che non c’è.
di Massimiliano Guareschi
www.usthemyours.com, febbraio 2021Moicana, L’edicola che non c’è
Due anni fa uscì il primo libro a firma Moicana, centro studi sulle controculture. Si trattava di Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano. Questo secondo volume, che porta la stessa firma, si occupa della produzione di riviste underground a Milano dalla metà degli anni sessanta ad oggi. La “galassia beat” ci viene raccontata da Alessandro Manca, che partendo dello scandalo de “la zanzara” (1965), passando per “Mondo Beat” (1966) – il primo vero giornale underground italiano – arriva al più fighetto e graficamente accattivante “Pianeta Fresco”. Chiara Balleso si occupa della fioritura delle riviste femministe nel periodo 1970-2000, Chiara Musati di “Re Nudo” e del filone hippie-psichedelico, Laura Minerva di “Rosso” e delle altre riviste del proletariato metropolitano. Andrea Capriolo si destreggia tra fanzine punk e dark, mentre Sara Molho ci accompagna nella riflessione tra corpi e tecnologie inaugurata da “Decoder” e “Un’Ambigua Utopia”. La tribù urbana dell’ hip hop ci viene raccontata da Sergio Maramotti, la crisi editoriale (e politica) degli anni 00 da Joseph Kleckner e la successiva “rinascita fanzinara” degli anni dieci da Nicole Savino. In appendice Holly Hauser ci offre uno scorcio sulla fanzineria milanese del 2020. Un libro fondamentale per tutti i bibliofili, gli amanti delle controculture e dell’editoria diy.
di Pablito el Drito

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