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La luna che muove le maree
www.ingenere.it 19 aprile 2021 La luna che muove le maree
Un'indagine sulla geografia del dissenso femminista dentro e oltre la pandemia, dagli scioperi transnazionali alla casa-fabbrica. È La luna che muove le maree (AgenziaX, 2020) raccolta di scritti firmati da alcune delle fondatrici del movimento Ni Una Menos

Militante, intenso, radicale. La luna che muove le maree, testo collettivo pubblicato da Agenzia X, è un racconto a più voci, un’indagine pungente sulla dimensione intersezionale dell’oppressione, sulla violenza sistemica che si spaccia per emergenziale. E l’America latina è il punto di partenza di questo viaggio attraverso le mobilitazioni femministe che si fanno pratica politica, un percorso a più tappe che affronta tematiche diverse ma convergenti: emancipazione femminile e sue contraddizioni, micropolitica e femminismo, decolonizzazione dei corpi e ipersfruttamento del lavoro di cura.
I femminismi latinoamericani contemporanei hanno fatto emergere la necessità di ripensare il femminismo in chiave strategica, transnazionale e intersezionale. La huelga femminista, d’altronde, si fa essa stessa portavoce di una molteplicità di lotte. A convergere nelle mobilitazioni femministe dell’America latina, sono la vasta geografia del non lavoro, la colonizzazione dei corpi, lo sfruttamento del lavoro riproduttivo e, più in generale, tutti quegli interstizi in cui prende forma l’incastro oppressivo dei rapporti di potere. “Grazie, però, all’interruzione delle nostre attività e dei nostri ruoli, grazie alla sospensione di quei gesti che ci vogliono vincolate agli stereotipi patriarcali, abbiamo creato un contro-potere all’offensiva femminicida che, di fatto, altro non è che il climax di tutte le forme di violenza riversate sui corpi delle donne”, si legge in nel capitolo #NosotrasParamos, a firma di Verónica Gago, docente e attivista del movimento argentino Ni Una Menos.
Uno sciopero, dunque, che rivela la composizione eterogenea del lavoro femminilizzato, riconoscendo e al contempo valorizzando le molteplici forme di occupazione precaria, atipica, domestica e migrante, che non possono più rappresentare dei semplici supporti del lavoro salariato. L’intero sistema di estrazione del valore va ripensato per dare finalmente voce a tutte quelle attività non riconosciute o non retribuite, si evidenzia nel testo. Lo scopo, è quello di elaborare un’immagine collettiva molto più articolata di ciò che viene definito ‘lavoro’.
Lo sciopero transnazionale femminista si fa contenitore di un’ampia gamma di lotte, talvolta provenienti dalle geografie più disparate, e sarebbe pertanto errato circoscriverlo allo strumento di mobilitazione storicamente adoperato dalle organizzazioni sindacali. Nel testo, l’aspetto che più emerge è proprio quello della differenza, dell’interstizio. Oltre a quello di una certa discontinuità rispetto al femminismo istituzionale. Mobilitazioni che sfuggono al potere, la cui tendenza è quella di fagocitare e silenziare, fagocitare per assimilare. La differenza ha sempre subito una violenza duplice: da un lato, incanalata nei circuiti di valorizzazione capitalistica; dall’altro, segmentata, frazionata, segregata. È in tal senso che la prospettiva dell’intersezione acquisisce tutto il suo spessore, poiché capace di scorgere il filo che tiene insieme dispositivi di dominio differenti sì, ma emanazione del medesimo apparato di potere.
Nel testo si sottolinea però come, nonostante l’intersezionalità delle lotte, ogni mobilitazione conservi la sua necessaria specificità. Le mobilitazioni globali dei movimenti transfemministi sono dunque genuinamente situate, posizionate. Ne Lo sciopero come processo, Susana Draper, attivista e filosofa, spiega della necessità di “riscrivere una storia comune di lotte ghettizzate e frazionate dalle politiche identitarie di cui l’apparato istituzionale dell’establishment si è servito per isolare gruppi, individui e narrative”. Lo sciopero femminista diventa dunque il contenitore di diverse forme di mobilitazione in cui è la radicalità a fungere da denominatore comune. Le mobilitazioni globali transfemministe si ispirano alla lotta micropolitica, il cui scopo è quello di forgiare ruoli e sguardi sul mondo alternativi a quelli dominanti. “Una rete fatta di collettività fluttuanti” si legge nell’intervista a Suely Rolnik Come farci corpo? “tenute assieme da uno slancio di pulsioni che viaggiano sulla stessa frequenza”.
Il testo ripercorre le tappe della nascita di una nuova soggettività politica, contraria al tentativo sistematico di voler ridurre le donne al ruolo di vittime in cerca di una compensazione. È proprio nell’intersezionalità della lotta che prende forma e si solidifica un nuovo femminismo. “L’attuale sistema di produzione – si legge in La lotta femminista contro la violenza in Messico, a firma della docente e militante Raquel Gutiérrez Aguilar “si regge sulla malefica triangolazione patriarcato-capitalismo-colonialismo, in cui ogni ingrediente si equilibra alla perfezione con l’altro per arrivare a ottenere, come risultato finale, un meccanismo fatto di espropriazioni, di sfruttamento e di oppressione, che si mantiene in vita grazie a una strategia di continue disgregazioni e intromissioni nella gestione della vita altrui”. Sotto accusa è dunque proprio la mediazione patriarcale, e tutte le ramificazioni di essa che si articolano nelle molteplici divisioni operate ai danni delle donne, che si tratti di forme di mediazione adottate dall’autorità maschile per gestire la relazione delle donne tra di loro, oppure tra le donne e il mondo.
Ne La luna che muove le maree trova il suo spazio anche un’analisi dettagliata dello sfruttamento del lavoro riproduttivo. Se infatti il lavoro produttivo viene quantificato e per esso viene corrisposto un salario, diverso è il caso di quello riproduttivo. Né retribuito, né socialmente riconosciuto. Anche quando esiste un salario per le attività di riproduzione, enorme resta il tasso di informalità e sfruttamento.
D’altronde, il sistema patriarcale ha sempre misconosciuto la riproduzione, ascrivendola piuttosto all’ambito delle risorse naturali disponibili all’appropriazione. La medesima sorte sembra averla avuta la biosfera, si legge in La vita oltre la pandemia, saggio a firma di Non Una di Meno, ridotta anch’essa a risorsa gratuita per alimentare un modo di produzione incentrato sullo sfruttamento e guidato dall’imperativo del profitto e della crescita ipertrofica.
“La scommessa è estendere la cura dai corpi singoli a ciò che permette loro di persistere: la relazione, gli ecosistemi, la biosfera, il pianeta intero. Questo è terreno di incontro, e convergenza possibile, tra movimenti femministi e transfemministi ed ecologisti” si legge ancora nel testo, che si chiude con un’analisi affilata di tutte quelle idiosincrasie rese ancora più visibili dalla pandemia. L’ultima tappa di questa indagine sulla geografia del dissenso femminista punta infatti i riflettori sulla casa-fabbrica, sull’annullamento delle distanze tra il tempo per la produzione e quello per la riproduzione sociale, tra il luogo del lavoro e quello dell’intimità, addomesticato anch’esso dal capitale.
Una lettura scorrevole, piacevole. Ma anche uno strumento estremamente utile per comprendere le mobilitazioni femministe globali, oggi.
Amalia Verzola
www.ilriformista.it , 23 novembre 2020Attente, non dimenticate il femminismo degli anni ’70
Il 19 ottobre 2016, a seguito dello stupro e del femminicidio della giovane Lucìa Pérez, le donne argentine proclamano uno sciopero che diventa immediatamente politico e dà il via, a livello internazionale, alla rete Non Una Di Meno. Già prima di loro, il 3 ottobre dello stesso anno, erano state le attiviste polacche a rispondere con un mezzo fino allora riservato alle vertenze sindacali alla decisione del governo di criminalizzare l’aborto. Con questo accostamento insolito tra la violenza sulle donne e lo sciopero, finiscono per incontrarsi e confondersi due ricorrenze importanti per il femminismo: il 25 novembre e l’8 marzo. Non la conta delle vittime, dunque, o la commemorazione di una strage, ma la comparsa sulle piazze di un movimento che grida il suo “ultimatum”, Ni Una Menos, e la sua sfida al mondo: se davvero la nostra vita non vale, provate a produrre senza di noi. È uscito in questi giorni, con Agenzia X di Milano, la traduzione di Constelaciòn feminista, La luna che muove le maree, un libro che nella Prefazione Milin Bonomi definisce «la cronaca dell’assalto sferrato dai recenti movimenti femministi latinoamericani contro il patriarcato e tutti i suoi alter ego (razzismo, colonialismo e capitalismo)». Con la riappropriazione di uno strumento legato fino ad allora alle lotte operaie, a saltare è la divisione tra lavoro e non lavoro, tra ciò che è stato considerato produttivo e tutte quelle attività, rimaste per secoli invisibili, non retribuite, che hanno permesso la conservazione della vita, considerate compito “naturale” del sesso femminile. Se in tempo di pandemia manifestare nelle piazze è impossibile e tanto meno abbandonare, anche solo per un giorno il lavoro di cura, diventato indispensabile dentro e fuori dalla famiglia, niente vieta di trasformare il 25 novembre in una giornata di riflessione sui cambiamenti che stanno avvenendo nel rapporto tra privato e pubblico, tra ruoli, gerarchie, di genere, tra sessualità e politica, vita intima e lavoro, tra violenza machista e razzista, istituzionale, economica e ambientale. «Dall’America Latina partiamo e in America Latina ritorniamo – si legge nella Prefazione – a chiusura di questo 2020. Proprio lì, come altrove, la pandemia ha messo in luce tutti i lati oscuri del sistema neoliberale (…) L’ipersfruttamento del lavoro di cura, e in generale del lavoro precario, l’annullamento delle distanze tra il luogo di lavoro e quello dell’intimità, tra il tempo per la produzione e quello per la riproduzione sociale (la casa-fabbrica) hanno fatto emergere i limiti di un sistema che non ha retto e che per molti versi è stato sostituito da esperienze di mutualismo dal basso». È sicuramente un merito del femminismo aver portato nel cuore della politica la cura e la conservazione della vita nella sua totalità, aver aperto le porte di casa per scoprire che la famiglia non è il rifugio ideale che si è sempre detto, ma luogo dove perversamente l’amore si confonde con la violenza. Se non fosse bastato quello che già sapevamo sulla presenza delle donne nei servizi alla persona, nelle scuole, negli ospedali, nei lavori di pulizia, la quarantena, si fa notare nel libro, ha «amplificato la scena della riproduzione sociale, mettendo in evidenza su quali e quanti lavori “femminilizzati” – intermittenza, piena disponibilità del tempo, messa a valore delle capacità relazionali e di cura – si sostiene oggi la vita collettiva. Il lavoro a distanza, a cui si è costretti in tempo di pandemia, sembra aver portato allo scoperto quello che è sempre stata la casa, una “casa fabbrica”, e il lavoro domestico «un aggregato della grande economia» (Antonella Picchio). La pandemia, si legge nello scritto Crack Up!, firmato da Luci Cavallero e Verònica Zago, «può anche essere una prova generale di diversa organizzazione del lavoro» per il tempo che verrà. Non c’è dubbio che dall’America latina, con lo sciopero delle donne, è arrivato a noi un femminismo “imprevisto” in quanto radicalità di attacco al patriarcato in tutte le sue manifestazioni – sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, devastazione ambientale, omolesbotranfobia -, ma l’accorpamento delle lotte rischia di non tenere nel dovuto conto quanto il primo termine, il rapporto tra i generi, stretto tra logiche di potere e di amore, dominio e vita intima, consapevolezze nuove e radicamento inconscio, finisca, nel momento stesso in cui si cercano nessi, intersezioni, per scomparire. Il termine stesso “riproduzione sociale”, che ricorre nei testi delle femministe più vicine al marxismo, finisce per riportare dentro categorie dell’economico quella che è stato lo “scarto irriducibile” della rivoluzione femminista degli anni Settanta: la scoperta di una materialità dell’oppressione e dello sfruttamento femminile che passa attraverso la sessualità e la maternità, la cancellazione della donna come persona, singolarità incarnata. Che “amore” rimanga tuttora per il femminismo in tutte le sue diversità una parola impronunciabile, e che nel libro il cambiamento portato dal ‘68 venga definito come «forme di insurrezione micropolitiche», «saperi del corpo», creazioni di stili di vita alternativi a quelli dominanti (Suely Rolnik), fa capire quanto esile, perché recente e poco conosciuto, sia il portato del movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta, una cultura che Rossana Rossanda riconobbe come «unilaterale e antagonista» anche rispetto all’ideologia di classe. Se è ancora così difficile per le donne sottrarsi a relazioni intime violente, riconoscere come lavoro la cura che hanno per un figlio, un anziano, un malato, ma anche un uomo, marito, padre, fratello, in perfetta salute, non dovremmo continuare a interrogarci sull’ambiguità delle figure di genere, sul fatto che nella loro complementarità strutturano rapporti e gerarchie di potere, ma anche d’amore, quel sogno fusionale di ricomposizione armoniosa del femminile e del maschile che ancora regala tanto credito alla misoginia di romantici come Michelet e Mantegazza?
Lea Melandri
Radio Popolare, 9 novembre 2020 La luna che muove le maree
Nella puntata di Sui generis di oggi parliano di un nuovo testo edito da Agenzia X per la collana degenerante, La luna che muove le maree, un’antologia di scritti che racconta l’assalto al patriarcato dei femminismi, dall’America latina all’Italia. Ne parliamo con la curatrice e traduttrice del libro, Milin Bonomi; torniamo a parlare di Intersex con Sabina Zagari, attivista, in occasione dell'Intersex Day of Solidarity: dalla sua storia personale al percorso di attivismo. Aretha Franklin: il ritratto dell’artista di Clarice Trombella.
Ascolta il podcast
a cura di Elena Mordiglia

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