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Original London Style

Tribal Cabaret, giugno 2023 Original London Style di u.net 

L’andirivieni dell’autore, dal finire degli anni 80 sino al nuovo secolo. Quasi, quasi come pellegrinaggi nel verbo multietnico. L’addentrarsi, lo scandagliare le varie fasi dell’hip hop. In cui si ricorda il Malcolm McLaren di Buffalo Gals e di Soweto, ci si imbatte nella breakdance e nei sound system. L’ingresso negli studi di registrazione. Periferie e Covent Garden che è nel cuore della metropoli. Una miscela di influenze africane, afroamericane, latine, caraibiche. Groove e nuove tecnologie, dancefloor e attivismo. Dicono la loro fotografi, produttori, writers, b-boys. Graffia il graffito, perché più che un rituale è la rappresentazione dell’essere se stessi alla riscossa.

di Massimo Pirotta

tonyface.blogspot.com, 24 ottobre 2022Original London Style

Il 6 dicembre 1982 il videoclip di Buffalo Gals di Malcolm McLaren, trasmesso a "Top of the Pops", sconvolge la scena musicale e sottoculturale inglese.
L’hip hop irrompe in Inghilterra e cambia le coordinate sonore, (sotto) culturali e artistiche di migliaia di giovani, soprattutto in quella che è la Black British Culture.
il libro di u.net approfondisce in modo capillare l’arrivo e l’evoluzione della nuova tendenza in Inghilterra, con testimonianze dirette dei protagonisti, le contaminazioni e l’importanza dei sound systems del giro reggae.
Pubblicazione interessantissima, basilare, indispensabile per comprendere certi passaggi e peculiarità di come si è mossa la black culture in Gran Bretagna.

di TonyFace

Libertà, 23 ottobre 2022Original London Style

La storia ci insegna che ci sono date iconiche che determinano ineluttabilmente un “prima” e un “dopo”. Anche nella storia della musica rock.
Quando nel 1955 il brano Rock around the clock finì nel film Il seme della violenza, il neonato rock’n’roll sconvolse menti e costumi di migliaia di giovani americani.
Gli stessi che dopo aver visto in TV i Beatles nel febbraio 1964 all’Ed Sullivan Show, decisero di impugnare uno strumento, allungarsi i capelli e cambiare visione della vita.
Accadde anche quando i Sex Pistols fecero i primi concerti in Inghilterra e il giorno in cui Michael Pergolani portò per la prima volta il punk alla televisione italiana con un servizio da Londra per “Odeon”, trasmissione condotta da Renzo Arbore, che illuminò la strada per centinaia di adolescenti, ignari di quello che accadeva in Inghilterra.
Ai nostri giorni, sommersi da infodemia e bulimìa di immagini, articoli, stimoli (sempre più improntati al ribasso culturale e artistico), situazioni come le sopracitate sono ormai obsolete e difficilmente di nuovo realizzabili.
Ma non disperiamo, l’attesa di una nuova ondata artistica che spazzi via il vecchio e rinnovi menti e spiriti, chiudendo negli armadi della storia suoni e usanze a cui continuiamo nostalgicamente ad essere attaccati, non è mai vana.
Personalmente non solo la auspico ma la cerco in continuazione con impazienza, per ritrovare quell’eccitazione che provarono migliaia di ragazzi e ragazze inglesi il 6 dicembre del 1982.
Quel giorno la trasmissione musicale più seguita dai giovani, “Top of the Pops”, mandò in onda un video di una vecchia volpe della scena musicale.
Quel Malcolm McLaren, che, da sapiente manager, aveva preso e plasmato i Sex Pistols facendoli diventare un gruppo di fama mondiale, si dedicava ora a una carriera musicale come compositore e cantante.
Visionario e con uno sguardo sempre all’avanguardia, scoprì che a New York, nelle comunità nere, era esploso quello che conosceremo di lì a poco com il nome di rap e hip hop.
Musica e immagini che portò nel video e nel brano Buffalo Gals.
Scrive U.Net nel libro appena pubblicato dalla casa editrice Agenzia X, Original London Style: «Fu come se quel video avesse scoperto un vaso di Pandora e tutta la cultura di strada del Bronx si fosse riversata sul suolo britannico. Quei giovani non solo avevano scoperto nuove pratiche di strada, ora potevano osservarle e imitarle. In quel video c’era tutto: rap, scratching, graffiti colorati e il più sorprendente degli stili di danza. C’era un ballerino che ruotava su se stesso, poggiandosi solo sulla testa. Se al telegiornale avessero trasmesso un ipotetico sbarco marziano probabilmente quei giovani sarebbero stati meno sbalorditi». Nasceva una nuova tendenza che fu abbracciata immediatamente, in particolare dalla comunità nera. Quella arrivata dalle West Indies (le ex colonie britanniche dell’America Centrale, Giamaica in particolare).
Continua u.net: «Il razzismo fu una sorpresa per la popolazione caraibica che era stata educata a considerare la Gran Bretagna come la gloriosa Madrepatria. Tuttavia, sin dal loro arrivo, furono indirizzati verso lavori a bassa retribuzione con condizioni precarie e oggetto di ricatti discriminatori; per esempio venivano sistemati in alloggi fatiscenti e relegati a un sistema scolastico scadente. Con loro grande sorpresa una “barriera di colore” venne eretta tra i neri e il resto della società britannica. “C’era questo forte senso dell’impero, eravamo tutti inglesi. Per la generazione dei miei genitori scoprire che non erano veramente britannici fu davvero un shock. Erano solo dei neri” racconta un figlio di immigrati giamaicani».
Ma questa prima generazione sopportò con stoicismo privazioni ed emarginazione, con la prospettiva di tornare prima o poi a casa, con qualche soldo in più in tasca, dopo una dura parentesi oltreoceano.
Le cose cambiarono invece drasticamente per i figli e i nipoti, nati in Inghilterra, cresciuti nella società britannica e che non erano mai stati in Giamaica, per loro un paese lontano e straniero, di cui non conoscevano usanze e nemmeno lingua (il patois), se non attraverso i racconti dei genitori e dei nonni. Incomincia a formarsi quella che viene definita “Black British Culture”. Anche attraverso la musica. Non più solo e unicamente reggae, ska e calypso, la musica di riferimento in Giamaica ma una rielaborazione, un’attualizzazione dei generi, mischiandoli con quanto arrivava e accadeva dove erano nati. Si viene a determinare il passaggio da una generazione che aveva riprodotto la cultura caraibica, a una nuova che intendeva lasciare il proprio segno, “da una presenza afrocaraibica in Gran Bretagna all’emergere di una cultura britannica nera”. Per quei giovani era più facile identificarsi con Londra piuttosto che con la Giamaica. È in questo momento che incomincia a svilupparsi un’identità originale. Dice ancora u.net nel libro: «Negli anni Settanta non si sentivano più fuori luogo, in difetto perché né caraibici né inglesi, così era nata una generazione diversa dalle precedenti. Proprio per questo la musica, la poesia, la letteratura e il linguaggio utilizzato raccontavano questa esperienza collettiva, tra trasformazione, ansia sfida e speranza. La loro politica si esprimeva attraverso la musica, o forse la stessa musica era diventata un veicolo della loro opinione politica».
Fino a quel momento le comunità caraibiche vivevano nei propri quartieri, preservando le proprie radici e non interagendo con il resto dell’Inghilterra bianca. I giovani nati sul suolo britannico furono costretti a relazionarsi con un’altra dimensione, diventandone parte e cambiandola.
Iniziò il punk a condividere sonorità reggae (vedi i Clash), proseguì la scena ska di Specials, Madness, Selecter, The Beat a prendere le radici giamaicane e a mischiarle con l’energia della new wave, creando i primi gruppi interrazziali, fino ad allora rarissimi in Gran Bretagna, arrivarono poi funk e soul e alla fine il rap e l’hip hop. Anche la scena reggae inglese, fino ad allora impermeabile ai cambiamenti si aprì, dapprima al soul e al funk (la scena “Lover’s Rock”) e poi sempre più ad altre contaminazioni, vedi in particolare gli elementi di elettronica, di jazz, rock, lo stesso hip hop che stanno creando musiche sempre più nuove e stimolanti.
Alla base ci furono le feste intorno ai sound system (definiti come “una specie di discoteca itinerante”), impianti voce attorno a cui valenti DJ proponevano le musiche più nuove ed eccitanti, richiamando tutta la scena giovanile di colore.
Dice uno dei protagonisti, Jazzie B: «L’importanza del sound system andava molto al di là del semplice intrattenimento musicale, erano la nostra connessione con gli altri immigrati dei Caraibi. Era un rifugio da tutto ciò che accadeva durante la settimana di duro lavoro, dove potevi stare e incontrare persone che la pensavano come te. Per l’operatore i sound system erano un’opportunità di lavoro, una sorta di mix tra musica, affari e vita, ma soprattutto erano qualcosa su cui potevano avere totale controllo e autonomia dai bianchi».
Ribadisce Simon Jones: «Ebbero un ruolo fondamentale per la comunità nera fornendo l’accompagnamento musicale a tutta una serie di eventi sociali come feste di compleanno, matrimoni, ricevimenti. Furono il collante sociale della comunità nera e in pochi anni divennero importanti quanto la chiesa. Tutti i luoghi dove apparivano si trasformavano in spazi di solidarietà, di festa, di gioia. Un’enclave di resistenza sempre sulla difensiva, poiché a partire dagli anni Cinquanta fino ad oggi, questi spazi sono sempre stati oggetto di particolare repressione della polizia. Politicamente stiamo parlando di una sfera pubblica alternativa che si è evoluta, alimentando la coscienza politica dei giovani neri di diverse generazioni».
Da pari nostro, in Italia, stiamo assistendo a modalità molto simili di tentativi di integrazione e relativa emarginazione di chi è arrivato da lontano alla ricerca di pace, di una fonte di lavoro, di una ricostruzione della propria vita.
E che ha concepito giovani, nati qui, italiani a tutti gli effetti (nonostante leggi disumane e stupide che con cavilli assurdi continuino a cercare di impedirlo). Sarebbe bello, naturale, umano imparare qualcosa da queste storie. Ma, purtroppo, personalmente, non ci conto. L’epoca è buia e di luci in fondo al tunnel per queste nostre sorelle e nostri fratelli (oltre che per noi stessi) non se intravedono, al momento.

di Antonio Bacciocchi

www.rocknread.it, 12 settembre 2022Original London Style

Original London Style recita nel sottotitolo “hip hop, sound system e black british culture” come a indicare un tridente informativo definito. Ma sarebbe troppo limitante perché la lettura di questo libro svela un mondo incredibile non solo un trittico di sottoculture.
Siamo negli anni Ottanta (principalmente) ma visti da ottiche diverse della cultura punk o da quella pop che hanno fatto da padrone nei grandi canali di comunicazione.
In Original London Style c’è il racconto di una Londra, ricettiva come sempre, ma aperta alle nuove sonorità che New York aveva appena creato e diffuso tra i giovani. Londra è sempre stata attratta da New York ma stavolta con l’accoglienza data al primo brano hip hop americano Rapper’s delight della Sugar Hill Gang fornirà un trampolino olimpionico per una musica che andrà a incastonarsi tra i macrogeneri tipo il rock.
C’è una Coven Garden non ancora polo turistico londinese ma crocevia di culture e contaminazioni che oscillano tra esibizioni esaltanti di b-boy, Mc e rapper fino agli scontri tra bande rivali.
L’autore, u.net, scrive con cognizione di causa avendo appurato l’argomento con devozione e passione. Sceglie la narrazione a più narrazioni dove autori principali si susseguono per raccontare lo spaccato di un periodo in particolare. Così da creare una visione esaustiva, variegata e mai noiosa per il lettore.
Si dedica a spolverare quei fenomeni che hanno reso possibile la diffusione dell’hip-hop come le radio pirata, i sound system e le eroiche musicassette che hanno portato in giro musica che spesso era all’avanguardia per il sentito convenzionale.
“Quando l’ingegnere olandese Lou Ottens introdusse la cassetta stereo compatta nel 1963, nessuno poteva immaginare che avrebbe rivoluzionato il mondo della musica, eppure già negli anni settanta quel piccolo supporto si era trasformato in una tecnologia rivoluzionaria e sovversiva.
La sua importanza era legata alla portabilità e alla convenienza, ma soprattutto alla facilità di registrazione e distribuzione.”
Entra nel cuore così del sistema che ha generato una nuova musica, ovvero l’hip-hop inglese, passando da capisaldi come i Soul II Soul e da sfumature tribali collegate al reggae giamaicano. Scoperchiando una portentosa energia sonora che si è propagato prima nei luoghi con più fermento emotivo, spesso zone popolari, qualche volta nel degrado, per espandersi in tutto il territorio inglese.
Creando così la “black british culture” che plasma generi e stili musicali (vedi il grime per esempio) con la sua influenza epocale radicata a Londra, certo, ma ormai in tutto il mondo.
Original London Style arriva fino agli anni Novanta e tocca le acid house analizzando come abbiano risposta all’ascesa della techno music. Insomma, è un libro veramente completo per chi è in cerca della storia dell’hip hop inglese e da tutte le sfumature che gli orbitano attorno.

di Andrea Paolucci

Blow Up, luglio/agosto 2022Original London Style

Firma nota per chi si interessa di musica e cultura afroamericana, Giuseppe Pipitone ha all’attivo diversi saggi attraverso cui ha indagato con passione e competenza l’universo hip hop in molte delle sue sfaccettature. Ma u.net – questo il nome con cui è conosciuto nell’ambiente – ha sempre voluto spingersi oltre il dato biografico e musicale, analizzando da vicino anche l’enorme impalcatura sociale, economica e politica che sorregge il rapporto tra bianchi e neri nell’America del secolo scorso e in quella contemporanea. Non a caso gli è stata concessa una fellowship (qualcosa di simile ad un assegno di ricerca) all’Harward University direttamente da Nas, uno dei più grandi artisti rap di ogni tempo. Con Original London Style Giuseppe si addentra ora nel contesto britannico, riportando alla luce nomi e luoghi colpevolmente poco noti anche agli appassionati. Ma Londra non è New York o Miami, così con Brixton non è il Bronx: sta però esattamente in questi parallelismi, talvolta lasciati intendere direttamente attraverso la viva voce dei protagonisti, il punto di forza del saggio. Duecento pagine da consumare tutte d’un fiato, tra sound system, rude boys giamaicani, crew a passeggio per Covent Garden e una scema che – sebbene diversissima rispetto al passato – sembra ancora molto più viva di altre.

Carlo Babando

www.rollingstone.it, 12 giugno 2022 L’importanza di studiare l’hip hop

Negli atenei americani è oramai una consuetudine. Nas, ad esempio, finanzia delle borse di studio. In Italia gli ‘hip hop studies’ sono invece in mano a ricercatori indipendenti

Ricordo ancora la faccia un po’ perplessa del mio docente relatore quando, nell’ormai lontano 2006, mi presentai da lui per proporgli una tesi di laurea in Sociologia sulla segmentazione geografica e culturale della scena hip hop. Oggi che la docente sono io, la situazione è parecchio cambiata: non passa anno che almeno uno dei nostri studenti approdi da me con una tesi sul rap italiano, che puntualmente viene accettata dall’università senza battere ciglio. Merito dei tempi che cambiano? Sì, ma non solo. La vera differenza la fa la mole di libri, ricerche universitarie e paper (banalmente: la mole di bibliografia utilizzabile) che negli ultimi 15 anni sono stati prodotti sull’argomento. E non solo su questo: basta dare un’occhiata al portale Academia.edu per scoprire quante materie precedentemente snobbate dai ricercatori sono state oggetto di indagine, di recente. Il punk, ad esempio, è stato sviscerato in lungo e in largo: dalle etnografie sulle varie scene dei Paesi musulmani ai processi organizzativi del DIY, passando per il linguaggio e l’estetica delle fanzine portoghesi fino alla teorizzazione di una “pedagogia punk”.
Negli atenei americani, la tendenza a rileggere in chiave accademica fenomeni prettamente pop è molto radicata. E in particolare lo sono i cosiddetti hip hop studies, che spesso vengono portati avanti dai dipartimenti di studi afroamericani. La materia si presta molto bene: non si tratta di un semplice genere musicale, ma di una cultura con uno slang codificato, un sistema di valori e varie discipline artistiche coinvolte. Capita così che a Georgetown l’eminente sociologo Michael Eric Dyson porti avanti un programma didattico interamente basato sulla discografia di Jay-Z o di Kendrick Lamar, o che a Syracuse esista un corso intitolato letteralmente Hip Hop Eshu: Queen B@#$h 101, dedicato a sviscerare la relazione tra i testi della rapper Lil Kim e la figura del dio nigeriano Eshu.
Tra i più importanti centri di studio sull’hip hop c’è quello di Harvard, che preserva un enorme archivio di testi e documenti, ma soprattutto ha un angelo custode davvero eccellente: Nas, universalmente considerato uno dei rapper più colti e articolati di sempre. «La Nas Fellowship, come la chiamano tutti, nasce nel 2013: lui in prima persona si è impegnato a finanziare quattro borse di ricerca all’anno per dieci anni», racconta Giuseppe “u.net” Pipitone, italiano e primo europeo in assoluto a entrare nel programma.
Normalmente la borsa in questione sarebbe riservata a chi ha già conseguito un dottorato, ma nel caso di Pipitone hanno fatto un’eccezione in virtù delle sue molte pubblicazioni già all’attivo: il suo eccellente biglietto da visita sono saggi divulgativi e appassionanti come Bigger Than Hip Hop, Renegades of Funk e Louder Than a Bomb (pubblicati in Italia da Agenzia X dal 2006 in avanti e saccheggiati da tutti gli studenti in tesi, tra cui io). Nella vita fa tutt’altro lavoro, ma è da sempre un grande appassionato di cultura afroamericana. «Fin dagli anni ’90 mi sono innamorato dei Public Enemy: in particolare sono rimasto folgorato da Party for Your Right to Fight, in cui facevano il verso ai Beastie Boys», racconta. Iscritto alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere, parte per gli Stati Uniti con l’intenzione di scrivere una storia orale delle Black Panther, ma «mentre ero lì mi sono reso conto che per raccontare la storia afroamericana recente e per spiegarla ai più giovani, la cosa migliore era farlo attraverso canzoni, libri, film e documentari legati all’hip hop». Da allora non si è più fermato e ha trascorso lunghi periodi all’estero raccogliendo le testimonianze di buona parte dei suoi protagonisti. «Essendo italiano e bianco, non me la sentivo di raccontare le loro storie attraverso la mia mediazione culturale: ho preferito che lo facessero loro, con la loro viva voce».
Quando decide di fare domanda per la Nas Fellowship, incoraggiato dalla direttrice del programma, lo fa «senza crederci fino in fondo, un po’ per la questione del dottorato, e un po’ perché fino a quel momento a ottenere la borsa di ricerca erano stati solo americani». Ma alla fine i meriti prevalgono, così per un anno si trasferisce a Boston, finanziato per approfondire la sua più grande passione. «Per la prima volta mi pagavano per studiare e scrivere. Un’esperienza incredibile, che oltre a darmi accesso all’immenso archivio di Harvard mi ha permesso di entrare a contatto con accademici di fama mondiale e artisti altrimenti inaccessibili come Terrace Martin o Rhapsody».
La sua ricerca si concentra sulla nascita e lo sviluppo della cultura hip hop in Inghilterra, che è raccontata anche nel suo ultimo libro, Original London Style, appena uscito in italiano sempre per Agenzia X. «Nel 2009 ero a Londra per assistere a una battle tra beatmaker e mi è capitato per caso di conoscere alcuni dei nomi più importanti della old school inglese», racconta. «Mi sono reso conto che non sapevo nulla di qual era stato l’impatto dell’hip hop in Inghilterra, così ho cominciato a indagare». Riportando nella giusta prospettiva alcune pietre miliare trascurate da altri studiosi, come il video di Buffalo Gals di Malcolm McLaren, che da ambasciatore del punk in America divenne anche ambasciatore del Boogie Down Bronx in Europa.
Giuseppe Pipitone non esclude di occuparsi anche dell’hip hop italiano, prima o poi: «Ma mi interessa soprattutto il periodo in cui ancora non c’era niente, quello di cui si parla meno. Vorrei chiudere dove la scena hip hop ha iniziato: mi piacerebbe che le ultime righe del libro parlassero di Militant A che canta “Batti il tuo tempo per fottere il potere”», dice, citando un celebre verso di Batti il tuo tempo di Onda Rossa Posse, che nel 1990 fu la prima canzone rap italiana pubblicata su disco. In attesa che anche alle nostre latitudini sorga qualche dipartimento di hip hop studies (o di punk studies, perché no), le speranze risiedono soprattutto in quelli stranieri, che si fanno sempre più competitivi e inclusivi: nel marzo 2022, ad esempio, la UCLA di Los Angeles ha inaugurato la sua Hip Hop Initiative, che ambisce a diventare il centro di ricerca più importante al mondo sull’argomento, con un fitto programma di «residenze artistiche, collane di libri, lezioni e seminari, un progetto di storiografia orale, un archivio digitale e numerose borse di ricerca», recita il comunicato stampa. La prima residenza artistica è stata affidata niente meno che a Chuck D dei Public Enemy. La ricerca continua, per la gioia degli studenti di domani.

di Marta Blumi Tripodi

Alias (il manifesto), 11 giugno 2022 Hip hop, l’anima British

Quando il 6 dicembre 1982 il video di Buffalo Gals di Malcolm McLaren & The World’s Supreme Team fu trasmesso durante la trasmissione Top of the Pops, all’epoca il programma musicale più popolare in tv, la cultura popolare inglese non sarebbe più stata la stessa. Di colpo i codici indecifrabili che raccontavano la nuova ondata creativa che arrivava dal South Bronx sembrarono rivelarsi ai più. L’impatto fu devastante, come quello di benzina gettata sul fuoco, un fuoco che accese l’immaginario giovanile. Da lì a breve nacque un movimento dirompente che aveva il suo fulcro nevralgico a Covent Garden, nel cuore del West End.
La cultura hip hop si inserì nella realtà inglese in un momento in cui la colonna sonora della nazione stava attraversando una fase di incredibile energia creativa, in uno stato di evoluzione continua: il punk, la new wave e il synth pop, ma anche reggae, funk, r’n’b e rare groove. Inoltre, sintetizzatori, campionatori, sequencer e drum machine erano più economici e accessibili, permettendo così di sperimentare nuovi approcci, alla ricerca di un sound sempre innovativo. Nel giro di dieci anni, sarebbero nate le controculture musicali che avrebbero plasmato gli anni Novanta: house, jungle, d’n’b, UK garage, e dubstep.
Il video di Buffalo Gals fu il primo prodotto mediatico hip hop mai pubblicato a rappresentare insieme le forme espressive dell’hip hop, il primo su entrambe le sponde dell’Atlantico. I frammenti visivi che McLaren incluse in poco più di tre minuti e la narrazione scelta generarono uno shock sufficiente a catalizzare un movimento giovanile nel Regno Unito. Il video aprì uno squarcio sulla realtà delle metropoli statunitensi, inoltre il montaggio con tagli rapidi, le veloci contorsioni corporee, i colori delle bombolette che invadevano lo spazio e il cromo scintillante della tecnologia, non fecero altro che aumentarne il fascino. In quel video c’era tutto: rap e scratching, graffiti colorati e, naturalmente, il più sorprendente degli stili di danza, il Bboying. Ovviamente, Londra non si trasformò all’improvviso nel South Bronx! Fu un’introduzione improvvisa, inaspettata che offrì possibilità per tutti, a prescindere dalle singole inclinazioni artistiche.

Le basi
Come quella americana, la scena londinese si sviluppò soprattutto attraverso lo scambio di musicassette con le registrazioni delle performance dei migliori mc statunitensi. Coloro che avevano amici o familiari a New York o avevano la fortuna di andarci, diventarono una sorta di gatekeeper, i predicatori di quel nuovo verbo. Insieme alle cassette, anche le radio pirata ebbero un ruolo fondamentale nella diffusione dell’hip hop e infatti nell’ambiente controculturale rappresentavano i social network dell’epoca, molto prima di Facebook e Instagram. Negli anni Ottanta e primi anni Novanta, le stazioni illegali dominavano le onde radio inglesi fornendo uno sbocco vitale a quelle espressioni di strada che non erano rappresentate dalla cultura mainstream. Il 1983 segnò un momento di svolta. Oltre all’uscita di Wild Style, docu-film che fornì una sorta di istantanea del South Bronx, Bertram Johnson, conosciuto come Dj Newtrament, pubblicò insieme agli Mc Sir Drew e Monoman quello che è considerato il primo singolo rap inglese, London Bridge Is Falling Down. Nonostante fosse una canzone che parlava della realtà inglese, con i suoi riferimenti ai boys in blue e con quelli espliciti contro la politica della Thatcher, il parlato aveva uno spiccato accento americano.
Questo elemento sarà una caratteristica comune di tutti i singoli rap pubblicati nella prima metà degli anni Ottanta. Dj Newtrament fu anche il fondatore del primo sound system hip hop di Londra, Rock Box. Le feste che organizzava si tramutarono in uno strumento di diffusione dell’hip hop a un pubblico sempre più vasto. All’epoca, quella scena germinale consisteva di piccole crew, per lo più all’oscuro di ciò che stava accadendo nelle altre aree della città, per questo quelle prime feste con sound system rappresentavano preziosissimi momenti di aggregazione e condivisione delle esperienze.
A metà degli anni Ottanta, l’hip hop londinese si esprimeva soprattutto attraverso le performance di breaking e body popping a Covent Garden, le battle tra Mc a Spats, le jam all’Africa Centre e i warehouse party che si susseguivano settimana dopo settimana. Sempre accompagnati da mixer e casse più potenti possibile, i raduni live erano il fattore determinante, ma se la cultura dei sound system non avesse già seminato le strade delle periferie per così tanti anni, l’hip hop inglese sarebbe stato un’altra cosa.

Uno stile unico
La cultura dei sound system, infatti, fortemente radicata nelle comunità etniche inglesi, plasmò profondamente il rap Uk sin dalle origini. Non a caso, Londra è la metropoli che più di ogni altra è in grado di far dialogare le diverse forme di espressione che nascono nelle periferie, per questo motivo l’hip hop sul suolo inglese seppe miscelare le influenze caraibiche, afroamericane e africane in uno stile unico e originale mettendo l’esperienza britannica nera al centro della diaspora atlantica, contribuendo così alla definizione di una cultura Black British.
Come sostiene il rapper Mc Mello: «Quando la cultura hip hop approdò in Inghilterra, grazie al reggae conoscevamo già i suoi elementi fondamentali. Per tutti coloro che seguivano la scena dei sound system fu molto semplice capire l’hip hop e affinare le nostre capacità, il look e l’attitudine in uno stile più British. Avevano in comune l’origine, la cultura e di base c’era la stessa energia». In questo senso, il sociologo britannico Les Back sottolineò come i londinesi neri «cercarono di adattare il rap all’estetica locale del sud di Londra. Il linguaggio e lo stile vennero intrecciati a simboli e riferimenti culturali dei caraibi e del Bronx, ripensati in un modo unico».
Il fascino del rap risiede nella sua capacità di mischiare più generi musicali, anche quelli più vecchi e famosi per creare qualcosa di nuovo. Nella scena inglese diversi furono i tentativi di plasmare generi e sottogeneri musicali nati all’interno della diaspora africana per adattarli alla realtà britannica in modo originale e innovativo. Così accadde anche per la cultura hip hop. I generi musicali nati nelle ex colonie caraibiche o sul suolo statunitense furono interpretati e rielaborati in forme anche radicalmente diverse.
I London Posse sono uno degli esempi più espliciti di questa unicità, poiché furono i primi a suonare in stile inglese. Con la pubblicazione di Money Mad e successivamente dell’album Gangster Chronicles fu come se avessero premuto il pulsante reset, cancellando la prima fase della scena e aprendo le porte a una nuova stagione del rap. Rodney P insieme a Bionic, i due Mc dei London Posse, cambiarono il volto e la storia dell’hip hop inglese, introducendo uno slang e un sound decisamente locali. È sufficiente mettere sul piatto del giradischi un loro disco per comprendere tutta l’eredità della scena dei sound system reggae; i London Posse rivoluzionarono i canoni espressivi classici dell’hip hop Usa per creare uno stile originale, espressione specifica della realtà inglese, ponendo l’esperienza britannica nera al centro della diaspora atlantica mettendola in dialogo le comunità con quella degli Stati Uniti e dei Caraibi, in modo tale che non privilegiasse una singola voce ma si presentasse come sfaccettata e innovativa. Dopo Gangster Chronicles la scena hip hop inglese non fu più la stessa!

u.net

Rumore, giugno 2022Original London Style

Voto: 80/100
U.net, lo storico più rilevante dell’hip hop americano che abbiamo in Italia, questa volta dedica una delle sue “storie orali” (così come le definisce) al rap inglese o meglio, come recita il sottotitolo, a hip hop, sound system & black british culture. Prima dell’avvento del grime, il rap prodotto a Londra e dintorni è stato troppo spesso snobbato all’estero nonostante una scena viva e piena di contaminazioni caratteristiche. U.net, già autore di un documetario sul tema (Unstoppable. The Roots of Hip Hop in London), si concentra sulla capitale inglese e interpella i protagonisti – rapper, MC, writer, b-boy, e dj – così come gli esperti locali (uno su tutti Simon Reynolds). Nei primi anni 80, molti giovani inglesi iniziano a prendere familiarità con il rap e le altre discipline dell’hip hop quando Top of the Pops trasmette l’istruttivo videoclip , brano old school di Malcolm McLaren. Completano l’opera lo scambio di musicassette, magari registrate da qualche radio pirata (rinate in quegli anni dopo la repressione del 1967), la visione di film storici in VHS come Wild Style, i primi luoghi di ritrovo all’aperto dove condividere queste passioni e le prime serate nei club. A rendere originale il rap inglese, oltre all’accento caratteristico che prende piede dopo un primo periodo di scimmiottamento degli americani, ha contribuito l’incrocio con la radicata cultura del sound system importata dalla Giamaica (tra l’altro stesso paese di origine di una dei padri dell’hip hop americano, Kooò Herc). U.net ricompone la successione degli eventi connettendo le varie testimonianze con delle parti pregne di informazioni, citando anche le parole di alcuni personaggi chiave che non ha intervistato direttamente, come Don Lets. Il risultato è un saggio puntuale e unico in un mercato in cui, ivece, l’offerta di libri sull’hip hop americano è sempre più ampia.

Luca Gricinella

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