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Hacking finance
www.panorama.it, 21 dicembre 2017 Bitcoin: 4 libri da leggere per capire le cryptovalute
“È la valuta del futuro”. “No, è una bolla e presto esploderà”. Cercare una verità definitiva sul Bitcoin in tempi di quotazioni record (17.000 euro al momento di quest’articolo, ndr) è praticamente impossibile: la madre di tutte le criptovalute già da un bel po’ è terreno di scontro tra guelfi (gli entusiasti) e ghibellini (i critici).
Ma prima delle opinioni vengono i fatti, anzi gli antefatti: e gli antefatti sul Bitcoin (che cos’è, come nasce, perché è così irresistibile) si possono trovare tra le pagine di un libro. Ne sono stati scritti tanti sull’argomento e tanti ne verranno. Qui ve ne presentiamo quattro.

Bitcoin. Guida all’uso delle criptovalute e della tecnologia Blockchain di Richard Caetano, Apogeo Editore
Un libro “di parte”, nel senso che è stato scritto da un imprenditore a cui l’universo Bitcoin dal 2011 a oggi ha concesso frutti generosi. Ma è anche una guida agile, che risponde a (quasi) tutte le domande che ci siamo fatti sulle cryptovalute e ci dice qualcosa in più sulla rivoluzionaria tecnologia che le sostiene: la blockchain.

Per un pugno di bitcoin. Rischi e opportunità delle monete virtuali di Massimo Amato, Luca Fantacci, Università Bocconi Editore
Un pamphlet prezioso, perché scritto da due docenti dell’Università Bocconi, che assolto il dovere di spiegare cosa sono i bitcoin, fanno qualche ipotesi sul futuro delle cryptovalute e tentano di rispondere alla domanda delle domande: quali sono i rischi e le opportunità connessi alla loro diffusione?

Hacking finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain di Francesco De Collibus e Raffaele Mauro, Agenzia X
La tesi portante del libro è che l’innovazione finanziaria “dal basso”, di cui il Bitcoin è solo un esempio, sta minando le fondamenta degli equilibri mondiali. Ma la sua corsa è davvero inarrestabile? Un libro da leggere per capire “il contesto” in cui è nato e si muove il Bitcoin.

La vita segreta (tre storie vere dell’era digitale) di Andrew O’Hagan, Adelphi
Scrittore, saggista, biografo di riconosciuto talento, O’Hagan si confronta con tre storie prese nelle profondità del web tra cui quella di Satoshi Nakamoto, il misterioso inventore dei Bitcoin. Il risultato è un’inchiesta letteraria vecchio stile, che se non ci svela nulla sul futuro del Bitcoin, ci mette sulla strada giusta per capirne la portata. E nel libro trova spazio anche un ritratto inedito e ferocemente onesto di Julian Assange, di cui per un periodo di tempo O’Hagan ha raccolto memorie e nevrosi.
di Eugenio Spagnuolo
Focus, febbraio 2017 Quando il bit si fa moneta
La domanda, qualche settimana fa in un ristorante di Trento, mi coglieva impreparato: «Preferisce pagare in euro o bitcoin?»... I bitcoin sono una moneta virtuale nata per consentire scambi in Rete da ogni parte del mondo; ma per qualcuno avrebbe dovuto essere morta e sepolta da tempo. “È solo una bolla speculativa, e trovo difficile capire quale sia il suo valore intrinseco”, aveva sentenziato l’economista e guru Alan Greenspan nel 2013. Eppure questa valuta elettronica è stata adottata da un numero di persone sempre maggiore. E da moneta “più pericolosa del Web” – come la definivano i giornali nel 2011, perché pensavano fosse usata soprattutto nei mercati illeciti per pagare droga o armi – è diventata una realtà accettata oltre che nell’e-commerce anche da 408 esercizi commerciali solo in Italia (dati Quibitcoin.it). Un numero peraltro in forte crescita. Ma che cos’è il bitcoin? Qual è il suo rapporto con le valute tradizionali? E quale sarà il suo futuro?
QUANTITÀ LIMITATA. Per comprendere il senso di questa moneta, creata su Internet nel 2009 da un informatico anonimo firmatosi con il nome di Satoshi Nakamoto, bisogna capire cosa dà valore a una valuta tradizionale come l’euro o il dollaro. Dato che il valore di una moneta non è più definito dal valore intrinseco (cioè il metallo prezioso che contiene), né dalla quantità di oro con cui può essere scambiata, come accadeva in passato, si può dire che è dato dalla quantità di beni e servizi che permette di acquistare. In pratica, il suo valore è arbitrario, ed è determinato in ultima analisi dalla fiducia che vi ripone chi la usa: se tutti smettessero di utilizzare gli euro, insomma, questa moneta non varrebbe più nulla. Nella pratica, a garantire che il valore nominale sia accettato da tutti come forma di pagamento, è lo Stato, attraverso la propria Banca centrale (e nel caso dell’euro anche la Banca centrale europea). Ogni valuta poi ha un valore in rapporto alle altre e a definire il tasso di cambio è soprattutto la legge della domanda e dell’offerta, anch’esse determinate dalla fiducia che chi compra o vende ha nel Paese di emissione e nella sua economia. Tutto questo vale anche per il bitcoin, che però ha una particolarità. «Per capirne il senso non bisogna paragonarlo a una valuta ma all’oro», spiega Raffaele Mauro, ex innovation manager di Intesa Sanpaolo, oggi managing director di Endeavor Italia e autore insieme a Francesco M. De Collibus del saggio Hacking finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain (Agenzia X). «Infatti si tratta di un oggetto digitale di cui vi è scarsità, perché l’algoritmo con cui è stato creato prevede che non se ne possano produrre più di 21 milioni». A differenza delle valute, che possono essere emesse a piacimento dagli Stati (i quali ne possono decidere anche la svalutazione).
SULLA FIDUCIA. Ma come ha fatto il bitcoin a passare da un valore pari a zero, quando è nato, ai quasi 700 euro della valutazione di fine novembre scorso? Il motivo è proprio nella reputazione che ha saputo guadagnarsi grazie a chi lo usa e nel fatto che c’è chi è disposto a cedere beni e servizi in cambio appunto di bitcoin. Questa moneta è nata infatti come strumento per generare fiducia tra individui che non si conoscono, permettendo di compiere transazioni economiche senza scomodare un terzo garante. «Ciò è possibile grazie a un concetto chiamato blockchain», spiega Mauro. Si tratta di un database distribuito tra i computer di chi contribuisce alla rete bitcoin. In ogni computer viene scritto tutto l’insieme di transazioni – suddiviso in blocchi – dei singoli soggetti, dall’ultima fino alla prima. «Attraverso la verifica della genuinità delle numerosissime catene di blocchi si può validare uno scambio di moneta virtuale», continua Mauro. «Ciò accade quando è garantito dalla maggioranza dei computer (50%+1) su cui l’enorme registro è presente, in modo tale che sia impossibile creare false transazioni».
In sostanza, anziché essere affidato a una banca, il registro su cui sono trascritti crediti e debiti è pubblico e leggibile da tutti i nodi della rete. Le transazioni però sono anonime: si può sapere che una certa quantità di moneta è stata trasferita dal conto A a quello B, ma non chi c’è dietro i due conti. «In secondo luogo le transazioni sono protette da un sistema di crittografia che impedisce che queste siano contraffatte», spiega Mauro. Infine, per fare la verifica, a ogni transazione è necessario compiere complessi calcoli. Questo lavoro permette di generare piccole quantità di nuova valuta: ogni dieci minuti, chi mette a disposizione il proprio computer riceve una percentuale per il carico computazionale che ha offerto, che è pagata in bitcoin generati dal network, ed è quindi incentivato a farlo. Ma, allo stesso tempo, l’algoritmo prevede che nessuno possa creare bitcoin a piacimento, in modo da generare frodi o creare inflazione. Il sistema di retribuzione è tollerato dalla comunità perché chi è specializzato in questa attività deve sopportare costi molto alti.
IN CRESCITA. Questo sistema ha fatto sì che il bitcoin venisse utilizzato sempre più, accrescendo il controvalore totale della valuta circolante a circa 11 miliardi di euro. «La forza del bitcoin è la sua diffusione e la capacità di resistere a ogni turbolenza e a ogni forma di scetticismo», afferma Mauro. E a dimostrarlo c’è il fatto che dopo aver superato la speculazione del 2013, quando ha perso un terzo del suo valore in pochi giorni, i consumatori sono tornati a crederci. Acquistare bitcoin d’altra parte è meno complicato di quello che sembra: basta utilizzare uno dei servizi come strongcoin.com o coinbase.com.
NON È L’UNICA. Il bitcoin naturalmente non è l’unica valuta digitale acquistabile: seguendo il concetto con cui è stato creato, altre – come l’ether – sono nate, ed è possibile che da valori prossimi allo zero o di soli pochi dollari esplodano ampliando questa nuova economia. Alcune di queste criptovalute sono nate per generare effetti che valicano quelli puramente economici: per esempio il gridcoin e il goldingcoin premiano con la generazione di una certa quantità di moneta chi mette a disposizione la propria potenza computazionale per elaborare calcoli utili alla ricerca scientifica e medica (e utilizzano un altro sistema di validazione delle transazioni). «Ciò che in generale emerge da questa rivoluzione», dice Mauro, «è la possibilità di applicare il concetto di blockchain anche ad altri campi: non solo transazioni finanziarie, ma anche per esempio la certificazione di informazioni sensibili, come la proprietà e ogni trasferimento di un immobile, senza più la necessità di ricorrere al notaio, oppure la creazione di smart contract, contratti intelligenti tra persone in cui per esempio il pagamento per una prestazione viene gestito interamente da un algoritmo». Se tutto è così promettente, quali sono i rischi? «Ci sono alcuni casi limitati in cui queste valute sono state create per truffare, ma certo questo non è il caso di bitcoin e di tante altre», racconta l’autore del libro.Enon manca il rischio, seppure remoto, che un hacker possa penetrare in sistemi non abbastanza robusti, come è invece il bitcoin, e commettere un furto, come accade anche nei conti delle banche tradizionali, o come è accaduto il giugno scorso con la sottrazione di 3,6 milioni di ether, pari a 47 milioni di euro, dal fondo di investimento decentralizza to The Dao. Calcolati i principali benefici (anonimato, spendibilità transnazionale, stabilità) e rischi (furti, truffe), se un numero maggiore di consumatori acquisterà fiducia nei bitcoin e nelle altre criptovalute nascenti si può ipotizzare un futuro in cui potrebbe indebolirsi il ruolo chiave di banche e intermediari per tutte le transazioni finanziarie.
DOMANI ACCADRÀ. «L’aspetto fondamentale è la decentralizzazione», spiega Mauro, «perché è l’elemento che permette di superare il vecchio modello, come accaduto per esempio con il peer-to-peer, che ha rivoluzionato l’industria musicale». Naturalmente è difficile ipotizzare cosa accadrà, anche perché le istituzioni finanziarie dopo avere rigettato le monete virtuali ora le hanno abbracciate e probabilmente stabiliranno nuove regole restrittive. «È possibile che il successo di queste criptovalute porti a una democratizzazione e a una maggiore trasparenza del sistema», conclude Mauro, «ma anche che emergano nuovi poteri, così come Facebook e Google sono emersi con la rivoluzione delWeb. La mia previsione è che accadranno entrambe le cose, ma il futuro è aperto e dipende dalle nostre scelte».
di Marco Consoli
Umanesimodigitale.com, 8 gennaio 2017 Satoshi Nakamoto: le origine del mito
Secondo gli autori del libro Hacking Finance l’agiografia di Satoshi Nakamoto presenta numerose quanto inequivocabili somiglianze con i più conosciuti tòpoi della narrativa religiosa di matrice cristiana: tuttavia, il fondatore di Bitcoin si rivela in tutta la sua umanità (e vulnerabilità) proprio nel momento in cui sul suo percorso appare l’ombra di WikiLeaks.
Profeta di una nuova fede basata sulla criptografia, anonimo benefattore dell’umanità sommersa dall’ultimo tsunami finanziario, multimilionario suo malgrado, impossibilitato a godere del frutto della sua creatura per timore di ritorsioni giudiziarie, oppure nome di fantasia per celare un gruppo di cybertruffatori o resilienti cypherpunk: non è semplice definire in una frase quello che rappresenta Satoshi Nakamoto, o qualunque sia il nome del fondatore (o dei fondatori) di Bitcoin.

Il profeta di una nuova fede basata sulla criptografia
“Le vicende di Satoshi Nakamoto – suggeriscono Francesco De Collibus e Raffaele De Mauro nel libro Hacking Finance: la rivoluzione di Bitcoin e della Blockchain – sono raccontate meglio dalla cristologia che non dalla biografia, e non è affatto un caso che i suoi interventi pubblici siano stati recentemente raccolti in un libro dal titolo veterotestamentario: The book of Satoshi”. Secondo gli autori di Hacking Finance, quindi, quel poco che sappiamo di Satoshi Nakamoto sembra trarre direttamente ispirazione dalla simbologia e dai tòpoi della tradizione religiosa cristiana, con i suoi miracoli, i suoi apostoli, e le sue rivelazioni. Un riferimento culturale che ritorna, come vedremo, più volte nel corso delle rare manifestazioni (finora, solo virtuali) del fondatore di Bitcoin.
“Il commercio attraverso Internet ha fatto affidamento finora unicamente sulle istituzioni finanziarie.”: con queste parole inizia Bitcoin: a peer-to-peer electronic cash system, il paper pubblicato da Satoshi Nakamoto nel lontano 2008 che dà il via all’era Bitcoin, appena due mesi dopo l’entrata sotto tutela fallimentare della Lehman Brothers.
Un esordio che ricorda l’afflato biblico di una nuova Genesi (“La Terra era informe e vuota e le tenebre ricoprivano l’abisso…”): apparso dal nulla, come se fosse sempre esistito, Satoshi Nakamoto è l’uomo della Provvidenza monetaria. Il riferimento alla Genesi diventa esplicito nel Gennaio 2009 con il mining del primo Genesis Block – primo blocco della Blockchain – manifestazione di potenza creatrice e fondamento di un nuovo ordine monetario mondiale.
Ogni Creazione, tuttavia, ha la sua ragion d’essere nel superamento del suo contrario: nella Genesi le tenebre, nel Genesis Block di Satoshi Nakamoto le istituzioni finanziarie e l’immissione arbitraria di nuova liquidità nel sistema. In quest’ottica, si spiega la scelta di Satoshi Nakamoto di inscrivere nel Genesis Block il titolo di un articolo del Times, tutt’ora consultabile online (“The Times, 3/Jan/2009: Chancellor on brink of second bailout for banks”), quale simbolo di un’epoca giunta definitivamente a conclusione. [e anche per dimostrare di non aver minato prima del 3 gennaio 2009, data di pubblicazione dell’articolo del Times].
La genesi di Bitcoin, la ragione storica della sua creazione è racchiusa quindi in un fatto di cronaca eccezionale – per i tempi di allora, in cui la crisi finanziaria era solo agli inizi – ma privo di profondità per i contemporanei: come una estemporanea cometa apparsa duemiladiciassette anni fa (o supernova, o congiunzione planetaria che fosse) è tutt’ora perpetuamente ricordata quale simbolo di un momento di svolta nella storia dell’umanità secondo i cristiani, così l’annuncio di un “second bailout for banks” dell’allora Cancelliere dello Scacchiere Alistair Darling è diventato il simbolo dell’irreversibile crisi delle istituzioni finanziarie, secondo i seguaci di Satoshi Nakamoto.
Simbolo eterno, quindi, dell’annuncio di una nuova era monetaria, come eterna dovrà essere la Blockchain, Libro mastro delle transazioni nato nella mente dal creatore di Bitcoin, come la Bibbia accessibile a tutti gli uomini, credenti o meno nella nuova dottrina. Grazie alla Blockchain – come nella Bibbia – è possibile risalire la genealogia di tutte le transazioni tra di chi, prima degli altri, ha abbracciato la nuova fede. Seguendo questa chiave di lettura, viene inoltre naturale paragonare gli pseudonimi numerici della Blockchain ai nomi di fantasia degli apostoli che avevano sposato la causa cristiana e che volevano rinnegare la precedente identità pagana, o più semplicemente sfuggire alla persecuzione delle autorità.
“La nuova moneta – concludono gli autori di Hacking Finance – destinata a soppiantare le vecchie non perché più recente ma perché istituita su premesse del tutto nuove, ha nella sua fondazione il talismano più potente di questa epoca: la crittografia. La crittografia non è solo simbolo esteriore, ma la fondazione interiore e il cuore pulsante di questo nuovo ordine sociale”.

Gavin Andersen: il primo degli apostoli
In quest’ottica, anche la figura di Gavin Andresen – chief developer del progetto e fondatore della Bitcoin Foundation nel 2012 – può essere letta alla luce di un confronto con le grandi costruzioni narrative delle religioni rivelate.
Presentandosi alla community a fine 2010, Andersen scriverà testualmente “è con grande riluttanza e con la benedizione di Satoshi che mi preparo a seguire più attivamente il progetto di Bitcoin…”: al punto da diventare – secondo la Mit Technology Review – il vero “costruttore” di Bitcoin, con il risultato che oggi meno di un terzo del codice originale di Satoshi Nakamoto è rimasto inalterato.
Come un novello San Pietro, Gavin Andersen è l’apostolo cui Satoshi Nakamoto consegna le chiavi (il codice di Bitcoin) e l’investitura informale a farsene interprete nel mondo. Ed è Andresen, tramite il primo Bitcoin Faucet approvato espressamente da Satoshi, a provare l’ebrezza del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, distribuendo gratuitamente un quantitativo allora irrisorio di bitcoin a chiunque ne facesse domanda, per favorirne la diffusione nelle fasi iniziali del progetto.

Gli ultimi atti
La figura di Satoshi Nakamoto rimane misteriosa e di difficile definizione non perché sia fin troppo simile alle imitazioni di profeti divenuti col tempo altrettanto famosi, ma proprio perché si discosta – al termine della sua evanescente apparizione virtuale – dall’intreccio narrativo solito dei profeti delle fedi rivelate, metafisiche o monetarie che siano. Satoshi Nakamoto non ha nulla di divino, nel momento in cui esprime le sue preoccupazioni e sceglie (volontariamente?) di far perdere le sue tracce. Le sue apparizioni online si fanno infatti sempre più rare tra la fine del 2010 e i primi mesi del 2011, prima di cessare del tutto nell’aprile dello stesso anno.
L’ultima attività dell’account Satoshi Nakamoto su P2PFoundation.org risale al 2014, dopo quasi tre anni di silenzio, ed è un commento a un precedente post risalente al 2009. Nel commento, Satoshi Nakamoto dichiara di non essere Dorian Nakamoto, un quasi omonimo su cui si erano concentrate le ricerche dei media (al punto da comprometterne seriamente la sicurezza personale e la privacy). “Persino il fatto di riemergere dall’oscurità per smentire, ovvero per negare di essere, anziché affermare di essere, contribuisce all’ombra lunga della sua leggenda” commentano De Collibus e De Mauro.
Satoshi Nakamoto è al tempo stesso un personaggio astorico, nella misura in cui i suoi comportamenti appaiono estranei ai codici di condotta contemporanei (la rinuncia ad apparire, a prendersi i meriti di quanto fatto, perfino a spendere i bitcoin accumulati finora), e innegabilmente abitante del presente, privo di ogni attributo divino o superomistico, nel momento in cui decide di scomparire in seguito ad alcuni eventi imprevisti ma che avvengono nell’ecosistema in cui matura lentamente il progetto di Bitcoin. Ne nominerò due, dal mio punto di vista degni di un’attenta riflessione.

Il calcio al “vespaio” di WikiLeaks
Nell’accezione comune, Bitcoin ha ricevuto un grande impulso alla sua diffusione e pubblicità in seguito alla scelta di Wikileaks di accettare donazioni anonime in bitcoin, dopo che nel 2011 Bank Of America, Visa, Mastercard e Paypal sospendono le donazioni tramite la loro piattaforma. Secondo bitcoin.com, Wikileaks ha ricevuto dal 2011 oltre 4.000 bitcoin, che al tasso di cambio attuale corrispondono a circa quattro milioni di dollari.
Alla notizia della mossa di Wikileaks, Satoshi Nakamoto tuttavia viene colto presumibilmente da un vero e proprio attacco di panico: “WikiLeaks ha dato un calcio al vespaio, e lo sciame si sta dirigendo verso di noi” è il suo commento registrato da bitcointalk.org alla notizia della decisione di WikiLeaks.
Negli stessi giorni, Satoshi Nakamoto indirizza pubblicamente una richiesta a WikiLeaks – rimasta inascoltata – chiedendo di non utilizzare bitcoin per autofinanziarsi in quanto “il progetto [Bitcoin, NdR] ha bisogno di crescere gradualmente […] Bitcoin è una piccola beta community, appena nata. Faccio questo appello a WikiLeaks affinché non utilizzi bitcoin”. Un messaggio alquanto diverso dai suoi interventi soliti, interamente dedicati al perfezionamento del codice, privi di emotività e di riferimenti con l’attualità del momento: WikiLeaks ignora la richiesta dello sconosciuto fondatore di Bitcoin, e questa scelta determina la sopravvivenza e la successiva diffusione di entrambi. Con buona pace di Satoshi Nakamoto e del suo prestigio all’interno della comunità che lui stesso ha creato. È il dicembre del 2010 e l’appello a WikiLeaks è uno degli ultimi messaggi pubblicati da Satoshi Nakamoto all’interno della community, in concomitanza con l’ingresso in scena di Gavin Andersen.

La condanna di von NotHaus
Nel marzo 2011, un tribunale federale degli Stati Uniti condanna Bernard von NotHaus, il creatore del Liberty Dollar, per cospirazione e contraffazione. Il Liberty Dollar era una valuta privata lanciata nel 1998 da Von NotHaus per il “baratto volontario tra privati, integralmente garantita da argento e oro” e che nel 2007 raggiunse, secondo quanto dichiarato dallo stesso NotHaus in “The End of Money” di David Wolman, la straordinaria diffusione di circa 250.000 sostenitori, prima dell’avvio delle indagini federali e della condanna nel 2011.
La sua colpa? Il fatto che il Liberty Dollar fosse troppo somigliante al dollaro (le monete recavano un valore di paragone espresso in dollari, così come facevano uso di riproduzioni della Statua della Libertà, e perfino il motto “Trust in God” era fin troppo simile a “In God We Trust”) e nella reiterata critica del fondatore alla “moneta fiat” quale causa di impoverimento sociale: un ideale condiviso con il presunto Satoshi Nakamoto, come notato a suo tempo dal professore di economia Larry White, e che è costato a von NotHaus una condanna a 20 anni di prigione.
Se tutt’ora l’origine di Satoshi Nakamoto resta ignota, non è da escludersi che il processo allora in corso contro von Nothaus e il mutato clima nei confronti delle valute alternative negli Stati Uniti (come dimostra l’analoga sorte di Goldfinger Coin & Bullion, e di altre similari) siano state motivo di preoccupazione per il creatore della più celebre criptomoneta al mondo, forse anche geograficamente (e non solo idealmente) vicino a Von NotHaus.
Coincidenza? Nell’aprile 2011 Satoshi Nakamoto dichiara di essere passato “ad altri progetti”, prima di riapparire nuovamente nel 2014 per negare – come abbiamo visto – di essere Dorian Nakamoto. Da allora, non si hanno più tracce della sua presenza (mentre gli impostori non hanno mai smesso di palesarsi).

Un sacrificio per l’eternità
Scomparendo, Satoshi Nakamoto alimenta la leggenda sulla sua figura e sull’origine di Bitcoin, e al tempo stesso rende vani i tentativi di ostacolare la diffusione di Bitcoin rivalendosi sulla sua persona.
Se di cristologia si può parlare, non è certo per la figura storica di Satoshi Nakamoto, così riduttiva nel suo essere solo un “programmatore”, così poco coraggiosa nel suo temere l’eccesso di visibilità prodotto da WikiLeaks e il suo inavvertito ritirarsi dall’unica scena pubblica frequentata – quella dei forum – in seguito alla condanna di von NotHaus.
È scomparendo – invece – che Satoshi entra nell’Olimpo della religione contemporanea, quella della assoluta supremazia della tecnica rispetto alla debolezza e arbitrarietà umana. Solo scomparendo per sempre Satoshi Nakamoto ha smesso di scrivere codice imperfetto e di sbagliare decisioni cruciali riguardanti l’avvenire e la diffusione di Bitcoin (WikiLeaks su tutti).
Conscio della propria mortalità e imperfezione, e in questo senso personaggio storico autentico e (probabilmente) unitario, Satoshi Nakamoto ha barattato il beneficio immediato di una popolarità mondiale con la promessa di eternità cristallizzata nel Genesis Block e l’aura mitica che circonda ogni fondatore.
Tra duecento o duemila anni l’uomo Satoshi sarà ormai polvere dispersa in fondo agli oceani, mentre il creatore Satoshi sarà ricordato come colui che avrà mostrato all’umanità la via per una nuova forma di scambio – e quindi di organizzazione sociale internazionale – sacrificandosi per (salvare?) l’umanità intera.
Effimera.org, 6 gennaio 2017 Hacking finance o financing the hackers?
Il Bitcoin[1] è stato largamente mediatizzato ed è mondialmente conosciuto come l’inizio della possibile rivoluzione criptovalutaria. La conoscenza dei meccanismi di base del suo funzionamento, come per esempio l’utilizzo della crittografia asimmetrica, il libro mastro distribuito e la blockchain, è abbastanza limitata come relativamente limitato è il numero reale dei suoi utenti. Il BTC infatti è poco impiegato come moneta di scambio e serve più che altro come valore rifugio in un ambito che è soprattutto di trading e di speculazione finanziaria.
Francesco M. De Collibus e Raffaele Mauro autori di Hacking Finance (Agenzia X, Milano, 2016) fissano il loro obiettivo sin dall’introduzione: “sarà impossibile soddisfare la curiosità di tutti i possibili lettori […] tuttavia ci piace pensare che ogni differente profilo possa trovare qualcosa di interessante o almeno uno spunto per successivi approfondimenti”. Diciamo subito che è un obiettivo centrato: gli autori danno un contributo utile, agile ed interessante per rendere più comprensibili la genesi, l’ambito e le prospettive, non solo del Bitcoin e delle altre criptomonete ma anche dei principi di decentralizzazione e di disintermediazione indissociabili dalla tecnologia della blockchain.
Ma andiamo con ordine: nella prima parte del libro, dopo la divertente prefazione, si viene introdotti nel contesto storico, culturale, sociopolitico ed infine anche tecnologico del Bitcoin. Il lettore quindi può cominciare a intuire, al di là della moneta stessa, quali siano gli obiettivi che un’invenzione di tale portata consente di raggiungere. Al centro di tutto c’è nientemeno che l’eventualità di una governamentalità algoritmica che rischia di essere sempre più autonoma man mano che i componenti open source dell’AI (Intelligenza Artificiale) saranno utilizzati. Cosa ne penserebbe Foucault, sostenitore dell’impossibilità di una governamentalità socialista?
Per la prima volta un’applicazione P2P offre la possibilità concreta di sopprimere il ruolo di garante finanziario (normalmente svolto da una banca o da una società di Intermediazione Mobiliare – Sim) che è l’essenza stessa delle istituzioni finanziarie odierne. Il che non è poco.
Gli autori inoltre ci danno ampie informazioni sulla genesi del Bitcoin addentrandosi nell’ambito hacker degli ideatori, al punto da rivelare il mistero che circonda l’identità del mitico inventore, Satoshi Nakamoto. La spiegazione sui meccanismi di base dei Bitcoin è un po’ succinta e necessiterà, per chi è interessato, dei “successivi approfondimenti” di cui sopra.
Troviamo poi una panoramica sul mondo delle altre criptomonete, gli alt-coin, e un po’ di storia delle quotazioni del Bitcoin, con le sue montagne russe speculative. Informazioni, queste ultime, particolarmente interessanti nel momento[2] in cui il BTC torna a far parlare di sé avendo superato per la seconda volta nella sua storia il valore di 1000 dollari. A differenza delle precedenti bolle quest’ultima impennata è probabilmente più legata alla situazione geopolitica dell’inizio 2017[3], un anno che si presenta più foriero di tempeste di quello che lo ha preceduto. L’insediamento di Trump alla Casa Bianca e la fase operativa del Brexit fanno pensare che la speculazione sui valori rifugio, di cui il Bitcoin ormai fa parte, potrebbe essere destinata ad amplificarsi sino a generare grandi sussulti. Satoshi, dal suo recondito ritiro zen, forse sorriderà di questo tsunami finanziario su cui la sua moneta surferà leggera.
Il capitolo intitolato “Oltre la blockchain” è uno dei più interessanti perché introduce il discorso sul grande potenziale sia funzionale che politico di questa tecnologia in piena evoluzione.
“L’ascesa della criptofinanza e delle tecnologie blockchain potrebbe modificare il modo in cui le persone si organizzano e comunicano fra di loro, allo stesso modo in cui l’avvento di Internet, il peer-to-peer e il paradigma sociale del web hanno avuto un impatto di massa portando a nuovi modelli per le imprese, con forme di interazione sociale del tutto inedite e implicazioni politiche ancore da scoprire nella loro interezza”, scrivono De Collibus e Mauro a proposito delle prospettive. Tutto vero, per carità, ma considerando la pericolosa dinamica della congiuntura europea e mondiale, il proposito sembra un po’ troppo timorato e “politicamente corretto”.
Gli autori espongono fattualmente le evoluzioni della blockchain 2.0, ed in particolar modo del sistema Ethereum e toccano un tasto più politico nell’interessante, anche se embrionale, paragrafo sui crytopcommons descritti come “una delle modalità con cui sarà possibile massimizzare il potenziale democratico delle tecnologie distribuite.”
Ottima, infine, l’idea di chiudere il libro con un manualetto pratico di creazione di criptovaluta che mostra la relativa semplicità dell’operazione e sollecita il desiderio di cimentarsi nell’impresa.
Hacking finance è quindi il testo ideale per chiunque voglia rapidamente avere un’idea di cosa sta succedendo nell’ambito di una delle tecnologie fra le più strategiche in quanto si sta insediando nel cuore del reattore finanza. Il linguaggio, leggero e abbastanza preciso, e la tonalità divulgativa, didattica e fattuale si addicono perfettamente a questo scopo. Forse si sarebbe potuto aggiungere ed affrontare qualche aspetto politicamente significativo rispondendo a domande del tipo: perché il bitcoin è diventato una moneta speculativa? Perché le banche prima del crash di Ethereum nel 2016 stavano investendo massicciamente su questo progetto (e probabilmente lo fanno ancora)?
Si potrebbe supporre che le banche si rendano conto della minaccia che queste tecnologie rappresentano per il prelievo di rendita e per il loro ruolo in generale e quindi cerchino di domarle e addomesticarle a loro vantaggio. La storia del Bitcoin ci insegna che anche i sistemi autonomi hanno bisogno di una loro governance, come ci fanno giustamente notare gli autori nel passaggio relativo alla diatriba sul tentativo d’aumento della dimensione dei blocchi nella Blockchain. Ed è infatti anche e soprattutto su questo piano che si giocherà una battaglia cruciale dove le istituzioni del capitalismo finanziario metteranno in campo tutte le loro armi.

NOTE
[1] Manterremo qui la convenzione del libro di designare con «Bitcoin» (B maiuscola) tutto il sistema tecnologico delle criptomonete e con «bitcoin» o «BTC» la moneta stessa.
[2] La recensione è stata scritta nel gennaio 2017
[3] Come sta succedendo in questi ultimi mesi (fine 2016 inizio 2017) con i cinesi che lo comprano per proteggersi dalla svalutazione dello yuan facendolo salire a nuove vette.
di Giorgio Griziotti
La Stampa, 24 dicembre 2016 12 Libri sulla tecnologia da regalare a Natale
[...] Il libro da regalare a chi si interessa di blockchain, la tecnologia transazionale nata coi Bitcoin e le altre criptovalute. Hacking finance offre uno sguardo sui progetti e sulle startup più interessanti del settore e prova a capire limiti e prospettive di una tecnologia che promette di rivoluzionare il sistema finanziario globale. [...]
di Andrea Nepori
Carmilla, 9 dicembre 2016 Hacking finance
Pubblichiamo il prologo del saggio di Francesco De Collibus (già pregiato collaboratore di Carmilla) e Raffaele Mauro, Hacking finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain

L’accelerazione tecnologica ha oggi un impatto socioeconomico pervasivo, genera continuamente shock sistemici e spesso sovrasta qualsiasi tentativo di controllo. È in questo preciso momento che si stanno gettando le basi per gli assetti del futuro. In particolare, l’industria dei servizi finanziari come la conosciamo oggi potrebbe mutare radicalmente. In questo momento di caos apparente è utile capire come siamo arrivati alla situazione attuale e come questa potrebbe evolversi. Esistono ricerche molto dettagliate su aspetti specifici di questa rivoluzione: per esempio come investire in bitcoin, come costruire un miner casalingo e così via. Mancava però a nostro giudizio un’analisi che desse davvero una visione olistica della mutazione finanziaria in atto, mettendo insieme gli aspetti tecnici, economici, storici e ideologici. Un editore come Agenzia X costituisce il campo base ideale per spingersi nell’esplorazione di questi saperi di frontiera, collocati spesso in territori poco o niente affatto indagati.
Perché queste nuove discipline dovrebbero essere interessanti per il grande pubblico? Non si tratterà forse dell’ennesima moda destinata a scomparire? No, le criptovalute e questa ultima onda di innovazioni finanziarie dispongono infatti di un potenziale esplosivo. Se finora era possibile scambiare digitalmente informazioni in modo efficace, con tutti i vantaggi per la libera circolazione dei saperi diventati evidenti negli ultimi anni, non era però ancora possibile scambiarsi elettronicamente valore senza un ente terzo che garantisse l’intermediazione. Pensiamo a banche, circuiti di carte credito o anche colossi tecnologici come PayPal: fino all’avvento del Bitcoin e al seguente impulso di ricerca sulla criptofinanza e sulle blockchain, qualcuno doveva sempre inserirsi tra sorgente e destinazione, imponendo regole alle parti coinvolte e di fatto manipolando i meccanismi di scambio di risorse tra pari. Ricordiamo che la prima mossa dei governi contro la scomodissima Wikileaks fu proprio bloccare l’accesso a tutti i conti bancari collegati. Fu solo grazie al Bitcoin che l’organizzazione poté continuare a ricevere finanziamenti e operare. Questa nuova onda ha quindi un potenziale democratico e di decentralizzazione senza precedenti. Scambi di risorse tra pari fondati sul reciproco accordo, senza soggetti terzi in grado di controllare ed estrarre valore.
Ricordiamo tuttavia che è possibile che una parte dell’hype sviluppato tra il 2014 e il 2016 sulla blockchain, concetto che ora inizia ad attirare l’interesse di società di consulenza e grandi istituzioni finanziarie, vada a sgonfiarsi in futuro. Alcuni paradigmi, come per esempio quelli relativi alle “blockchain private”, mostreranno probabilmente i loro limiti strutturali. Tuttavia le blockchain pubbliche, come quella del Bitcoin e di Ethereum, avranno probabilmente un potenziale molto maggiore. Siamo in una fase di costruzione di infrastruttura e i cambiamenti si dispiegheranno nel tempo, soprattutto fuori dalla possibilità di controllo diretto delle grandi organizzazioni.
Questo libro intende fornire gli strumenti intellettuali e le nozioni tecniche minime per comprendere quello che sta accadendo nel sistema finanziario e diventare parte attiva, anzi hacktiva, di questo cambiamento. Ovviamente, sarà impossibile nelle brevi pagine a nostra disposizione soddisfare la curiosità di tutti i possibili lettori, ciascuno con esperienze e aspettative diverse, tuttavia ci piace pensare che ogni differente profilo possa trovare nel libro qualcosa di interessante o almeno uno spunto per successivi approfondimenti. Questo è stato l’obiettivo con cui abbiamo lavorato e che speriamo sinceramente di aver raggiunto.
Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2016 I Bitcoin sono una nuova, potentissima forma di hacking?
Adesso sembra arrivato il turno della finanza e del mondo del denaro. Prima era toccato ai provider di contenuti globali, giornali, case discografiche, major hollywoodiane e non: tutti sconvolti (e con loro chi ci lavorava dentro, giornalisti, musicisti, videomaker) dal digitale che ha perturbato il sistema di aggregazione, pubblicazione e distribuzione dei contenuti attraverso le brutali ondate di mutazioni dell’Internet che hanno colpito in pochissimo tempo gli equilibri socio-economici mondiali.
Adesso sono le banche, le più vecchie istituzioni del mondo, a tremare perché con l’avvento del Bitcoin, delle criptovalute, è minacciato il loro ruolo storico di intermediazione (monopolio) nell’emissione e gestione della moneta. Un libro appena uscito per i tipi di Agenzia X, Hacking finance, scritto a quattro mani da Francesco De Collibus, filosofo esperto di informatica e da Raffaele Mauro, Innovation Manager del Gruppo Intesa, coglie la palla al balzo e prova a spiegare il fenomeno dei bitcoin inquadrandolo come la nuova, potentissima, forma di hacking che promette di democratizzare la gestione del denaro nel mondo.
Avete letto bene: giusta o sbagliata che sia, questa previsione non è campata per aria, e per capirlo basta leggere un articolo recente del “Financial Times” che illustra come un team speciale di Bank of England sta portando avanti un programma sperimentale di criptovaluta. Spiegati alla svelta con parole degli autori di Hacking finance, i Bitcoin consistono in “scambi di risorse tra pari fondati sul reciproco accordo, senza soggetti terzi in grado di controllare ed estrarre valore e che hanno un potenziale democratico e di decentralizzazione senza precedenti”.
In sintesi, questa tecnologia consente di scambiare denaro in forma anonima in modalità peer-to-peer sicura (anche se sono capitati incidenti e i protocolli di sicurezza sono ovviamente in cima alla lista delle questioni da risolvere): vale a dire, chiunque può diventare una banca, o meglio, può diventare il banchiere di se stesso.
Va da sè che il potenziale rivoluzionario che porta in pancia questo nuovo step della tecnologia peer-to-peer è una minaccia per gli equilibri del globo e per le istituzioni bancarie mondiali, che, se da un lato chiudono sedi e filiali in tutto il mondo, dall’altro non stanno a guardare e si muovono per capire come cavalcare l’onda, attratti per ora anche dal risparmio enorme che il Bitcoin promette anche per loro.
Hacking finance racconta come a partire dalla crisi del 2008-9, anche in finanza è penetrato l’“approccio hacker”, ovvero centinaia di sviluppatori e start-up internazionali tutti impegnati a “smontare la scatola” senza che i governi centrali, per ora, riescano a controllarli. Per capirci, per gli autori si tratta di “centinaia di iniziative relative alla gestione dei pagamenti, al trasferimento di denaro, alla gestione del risparmio e degli investimenti, alla trasparenza, alla costruzione di contratti di natura decentralizzata e anonima”.
Il libro disegna un scenario ricchissimo, con molti riferimenti a protagonisti e alle criptomonete esistenti: è a metà tra un saggio di critica socio-economica sul tema e un manuale operativo per dummies, con la spiegazione step-by-step, di come è possibile in modo relativamente semplice, diventare degli hacker finanziari, ovvero crearsi da sé la propria criptomoneta. Naturalmente, gli autori avvisano che un utilizzo criminale delle criptomonete è uno dei problemi da affrontare, così come le nuove diseguaglianze che, a sorpresa, i Bitcoin potrebbero innescare.
Alla fine ci sono tre scenari possibili: quello utopico, in cui davvero il potenziale di decentrazione finanziaria dei Bitcoin aumenterà la democratizzazione e sancirà la fine dei monopoli. Ma è possibile che gli elefanti riescano a muoversi più in fretta del previsto e riescano a dominare l’onda tecnologica anche questa volta. Più probabile forse uno scenario “misto”, con molti cambiamenti, in cui, sarà cruciale riuscire a “far coesistere in modo armonico l’evoluzione delle nuove reti con l’erosione progressiva o la reinvenzione radicale del ruolo delle vecchie istituzioni, evitando shock sistemici e contraccolpi luddisti”.
di Michele Weiss
www.che-fare.com, 26 ottobre 2016 Oltre la blockchain. Distopia e utopia finanziaria
L’innovazione finanziaria, soprattutto quella che proviene dal basso, sta minando le fondameta degli equilibri mondiali. Pubblichiamo in anteprima un estratto da Hacking finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain di Francesco M. De Collibus e Raffaele Mauro
Tra i concetti dell’area Bitcoin 2.0, legati alle tecnologie di decentralizzazione, merita una menzione particolare il concetto di cryptoequity, vale a dire la creazione di “gettoni di valore” sicuri, basati su network distribuiti e in grado di assicurare titoli di proprietà/accesso su beni fisici o digitali. Nella forma attuale questo concetto si traduce principalmente in quote di proprietà “scritte” sulla blockchain, che in questo modo trasmette valore al di là della mera applicazione monetaria.
La “criptoproprietà” su reti decentralizzate può avere numerose declinazioni tecniche e implica un impatto significativo in termini di regolazione, dato che basa interamente la sua validità sulla robustezza algoritmica ed è relativamente indipendente dai sistemi giuridici.
I quattro significati fondamentali di cryptoequity sono:
Quote di società: il cryptoequity inteso in senso stringente e affine al concetto di “azione”, che consente quindi di avere diritto di voto sulle decisioni di un’organizzazione ed eventuale partecipazione agli utili. Un esempio è il caso di Bitshares.
Gettoni di proprietà: token digitali che rappresentano forme di proprietà non relative a organizzazioni o a proprietà intellettuale. Un esempio è CommonAccord.
Gettoni relativi a prodotti: token digitali scambiabili con prodotti materiali o immateriali.
Gettoni di accesso: token digitali che offrono l’accesso a reti specifiche o a gruppi ad ammissione ristretta.
Tra i “mattoni” che potenzialmente consentono la costruzione di sistemi di cryptoequity ricordiamo la possibilità di utilizzare smart contract, vale a dire accordi tra parti fissati a livello algoritmico e con caratteristiche di auto-eseguibilità e controllo, indipendenti dall’intervento di terze parti e dall’adesione a un sistema giuridico e normativo esistente. L’altro elemento costituente è il concetto di organizzazione autonoma decentralizzata, in grado di distribuire diritti e doveri tramite un set di regole basate su reti peer-to-peer e robustezza crittografica. Un modo semplice per costruire cryptoequity è l’abbinamento tra una criptomoneta con smart contract e un’organizzazione decentralizzata.
Tra le piattaforme che hanno tentato di operare in questo spazio ricordiamo Bitshares, Koinify e Swarm, progetto ora fallito ma il cui potenziale teorico rimane interessante. Swarm, da non confondere con l’omonima app legata a Foursquare, era un sito di crowdfunding che consentiva a organizzazioni e startup di fare fundraising in modo indipendente dai tradizionali canali di finanziamento. Koinify e BitShares consentono invece di costruire organizzazioni decentralizzate e, nel caso della seconda, di lavorare con una serie diversificata di cryptotoken legati ad altri beni diversi dall’equity tradizionale. Attualmente purtroppo solo BitShares risulta ancora operativa, a riprova dell’alta mortalità delle startup di questo settore
Esistono poi progetti che operano come piattaforma (Mastercoin o Counterparty) consentendo di creare transazioni finanziarie sulla blockchain. Counterparty è la piattaforma che ha abilitato la creazione di iniziative come Swarm e Koinifiy. Infine ci sono progetti, come i già discussi Ethereum e colored coin, che permettono di costruire cryptoasset in senso più generale.
Il primo beneficio che possiamo identificare per il cryptoequity è la presenza di bassi costi di transazione e di funzionamento: i diritti di proprietà su reti decentralizzate potrebbero essere gestiti con meno spese, in modo più veloce ed efficiente, poca burocrazia, una complessità limitata e una migliore protezione della privacy. Dall’altro lato, è prevedibile che, quando questo settore raggiungerà una certa dimensione, una qualche forma di regolazione sarà imposta dal legislatore.
Un altro tipo di benefici riguarda la trasparenza: nel caso del crowdfunding di Swarm è possibile applicare una due diligence (ovvero una valutazione e analisi) di natura collettiva sui progetti e si può applicare anche al monitoring e ad altre funzioni. Ciò implica che gatekeeper tradizionali, come i venture capitalist, si ritroverebbero ad avere molto meno potere a disposizione. Si tratta di un processo simile a quello accaduto anni fa con AngelList per quanto riguarda l’investimento in startup.
Un altro elemento di favore per il cryptoequity è la flessibilità: diritti/doveri potrebbero essere ripartiti tra i vari attori in maniera dinamica direttamente dall’algoritmo, cosa molto più difficile e farraginosa da ottenere con i vecchi contratti “manuali”. Gli accordi sarebbero anche più veloci e potenzialmente personalizzabili di quelli ottenuti con i sistemi legali attuali.
Inoltre ci sarebbe un importante vantaggio in termini di accesso: la flessibilità della tipologia di accordi possibili consentirebbe di costruire organizzazioni di natura inedita e permetterebbe di investire a categorie di soggetti finora escluse da questo processo.
Tra le applicazioni potenziali del cryptoequity, a parte la costituzione stessa di società e organizzazioni, possiamo citare sistemi per il crowdfunding, IPO/aste, sistemi di scambio per asset digitali, mercati secondari e forme di proprietà collettiva e commons.
Tra le critiche vediamo invece alcuni temi ricorrenti, in parti- colare il fatto che le quote di proprietà fondate sulla blockchain non sono legalmente riconosciute in senso ufficiale e che quindi non si tratta di “vere azioni”. È un problema fondamentale che riguarda gli asset digitali in generale e in cui c’è un interessante lavoro di analisi in corso. Un altro quesito riguarda il fatto che la creazione di una moltitudine di progetti di cryptoequity distoglie risorse dal miglioramento della rete Bitcoin ed espone il sistema, nel breve termine, a ulteriori ritorsioni legislative da parte dei regolatori pubblici. Possiamo notare come alcuni degli esperimenti recenti abbiano dimostrato elevati livelli di vulnerabilità: ricordiamo il progetto The DAO, iniziativa di incredibilie popolarità che a metà del 2016 aveva raccolto oltre 160 milioni di dollari da privati e piccoli investitori, ha subito un cyberattacco devastante che ha messo in pericolo le risorse di molti degli utenti.
Dal punto di vista giuridico le criticità sono molteplici, a partire dal fatto che le quote di proprietà digitale non sono azioni emesse in modo regolare, fino all’ambiguità tra “bene” e “titolo” che caratterizza i token digitali, per non parlare della loro natura radicalmente transnazionale, il tema del riciclaggio di denaro, l’identificazione dei partecipanti e la tracciabilità delle transazioni, i problemi di tassazione e così via.
Per quanto riguarda la definizione giuridica dei bitcoin e dei cryptoasset ci sono diverse scuole di pensiero e non si è ancora giunti a un reale punto d’accordo. In vari contesti regolamentari i bitcoin possono essere infatti considerati come beni, quindi tassabili con l’Iva in caso di compravendita, come asset finanziari, più raramente come monete.
Ci vorrà ancora del tempo per giungere a una convergenza tra normative e sistemi di tassazione, nel frattempo si vive in un contesto dove l’incertezza giuridica è elevata e i riferimenti mutano rapidamente nel tempo. Anche i casi più illuminati di tentativi di regolamentazione, come la Bitlicense nello stato di New York, stanno portando comunque a un esodo di startup dalla zona, vista l’incompatibilità tra gli elevati costi di compliance in quanto legati a una regolazione stringente e all’innovazione tecnologica, che per sua natura necessita della libertà di sperimentare a basso costo.
Le tecnologie blockchain si posizionano al di fuori degli steccati tradizionali del diritto ed è quindi decisamente complesso trovare forme di armonizzazione legislativa compatibili con gli ordinamenti attuali e che allo stesso non vadano a snaturare il potenziale delle innovazioni legate alla decentralizzazione. Sarà questo il vero banco di prova per gli innovatori e i legislatori dei prossimi anniCostruire le cryptocommons
Un’evoluzione importante del concetto di cryptoequity, ovvero criptoproprietà, è quello di cryptocommons traducibile come “cripto beni comuni”. Queste sono le applicazione delle tecnologie legate alla blockchain, delle reti decentralizzate, delle Dao (Decentralized Autonomous Organizations) e delle Dac (Decentralized Autononomous Corporations) per la libera condivisione di risorse tra pari. Nelle cryptocommons le risorse sono monitorate, gestite e distribuite a livello algoritmico, su reti peer-to-peer e tramite software open source.
Perché costruire insieme le cryptocommons? Innanzitutto per superare i limiti delle commons tradizionali, ovvero da una parte il problema del free rider, vale a dire il fatto che singoli individui possono sfruttare in modo eccessivo le risorse comuni a scapito della collettivià, e dall’altro la cosiddetta “tragedia del comune”, vale a dire il fatto che nelle proprietà collettive c’è minore incentivo individuale a preservare la risorsa comune.
A questi si aggiungono i problemi ricorrenti della robustezza delle strutture decentralizzate impiegate per la distribuzione di risorse e la loro vulnerabilità a forme di appropriazione indebita e creazione di enclosures, ovvero recinti privati nello spazio comune. La blockchain consentirebbe invece di concepire delle cryptocommons o smart commons in grado di evolvere, essere democratiche e decentralizzate allo stesso tempo, immuni ad attacchi di free rider, capaci di preservare le loro risorse nel lungo periodo tramite regole fissate a livello algoritmico.
Le cryptocommons avrebbero la possibilità di una governance decentralizzata, basata sull’intelligenza della rete. Le semplici reti peer-to-peer non sono sufficienti, la blockchain consente invece di aggiungere alla rete caratteristiche di sicurezza, stabilità, capacità di gestire asset di valore, coordinamento e “intelligenza” (tramite strumenti come gli smart contract).
Inoltre si invertirebbe il problema tradizionale delle risorse condivise: le commons, ovvero i beni comuni, hanno una difficoltà di gestione proporzionale al numero degli utenti, che storicamente implica l’utilizzo di strutture centralizzate (come lo stato) per gestirne lo sviluppo e la redistribuzione su larga scala. Le cryptocommons invece possono funzionare in modo opposto: ogni nodo che si aggiunge aumenta anziché diminuire l’intelligenza collettiva della rete, di conseguenza le cryptocommons che crescono possono diventare più efficaci.
Possiamo pensare almeno a quattro implementazioni delle cryptocommons, con alcune tecniche potenzialmente sovrapponibili tra loro:
Basate sulla proprietà: cryptocommons sull’implementazione di una cryptoequity condivisa.
Basate sui contratti: tramite smart contract su partecipazione collettiva oppure smart contract con diritti e doveri di coordinamento collettivo.
Basate su gettoni: cryptoasset, gettoni e cryptocoin che rappresentino quote di proprietà o diritto di accesso alle risorse comuni.
Basate su applicazioni software: applicazioni decentralizzate focalizzate sulla gestione di risorse comuni.
La costruzione di sistemi per la condivisione in rete, tramite l’ausilio della blockchain, è una delle linee di ricerca più promettenti. È anche una delle modalità con cui sarà possibile massimizzare il potenziale democratico delle tecnologie distribuite, rendendole uno strumento per il pieno sviluppo umano e non soltanto un motore per costruire più rapidamente profitti. Uno dei progetti che operano in questo spazio è Backfeed, una piattaforma creata per lanciare in modo semplice ed efficace progetti di collaborazione decentralizzata. L’iniziativa punta a divenire un protocollo o piattaforma universale da montare sopra la blockchain, da considerarsi come i browser o il protocollo http per internet. Un’altra iniziativa degna di nota è Freecoin, iniziativa creata da Denis Rojo detto “Jaromil” e supportata dalla rete europea D-cent. Il progetto favorisce la creazione di monete digitali “sociali” e di meccanismi di remunerazione/incentivazione per organizzazioni orizzontali e democratiche.
[…] Giunti al termine di questo breve viaggio, possiamo cercare di ricapitolare alcuni punti fermi e a ipotizzare uno schema di tre possibili scenari futuri:
Distopia / Teocrazia finanziaria
I grandi player della finanza riescono a comprendere le nuove onde tecnologiche, adattarsi a loro e alla fine dominarle. In questo scenario gli aspetti peggiori di rigidità, controllo, assenza di privacy sono enfatizzati: le AI (intelligenze artificiali) controllate dalle banche d’investimento riescono a espropriare anche le minime frazioni di valore generato dal lavoro fisico e cognitivo in ogni parte della terra, controllando le persone tramite una rete di contratti di debito ineliminabili, il tutto con il beneplacito di istituzioni e governi. Sostanzialmente si tratta dello Skynet della tecnofinanza.
Utopia
Il potenziale di decentralizzazione delle reti porta alla creazione dell’utopica network society teorizzata da molti, dove i sistemi peer-to-peer, la democrazia e la trasparenza riescono a erodere le posizioni di potere arbitrario costruite dalle grandi corporation e dai governi. Infatti, i vecchi attori si dimostrano troppo lenti nell’adattarsi al cambiamento e sono soppiantati da una moltitudine eterogenea e interconnessa che riesce a costruire reti autonome per tutelare la propria vita economica, sociale e culturale. È talmente bello che potrebbe anche essere vero.
Scenario misto
Come è accaduto per l’avvento di Internet, si creano nuovi spazi di libertà, alcuni vecchi attori crollano e altri nuovi attori li sostituiscono imponendo nuove forme di controllo e centralizzazione. La misura in cui questo scenario, crediamo il più probabile, possa avvicinarsi alla realtà dipende da scelte collettive che travalicano la mera questione tecnologica.
Sarà necessario progettare le nuove reti facendo attenzione alle conseguenze sistemiche e, allo stesso tempo, progettare forme di regolamentazione non invasiva e aperta al cambiamento tecnologico.
L’obiettivo è di far coesistere in modo armonico l’evoluzione delle nuove reti con l’erosione progressiva o la reinvenzione radicale del ruolo delle vecchie istituzioni, il tutto evitando shock sistemici e contraccolpi luddisti. Come ha sempre fatto, la realtà saprà improvvisare.
Non ci è dato sapere quale di questi scenari si realizzerà, tuttavia possiamo impegnarci per orientare le nostre scelte collettive, indirizzando standard, protocolli e tecnologie verso una maggiore distribuzione del potere invece che verso una sua ulteriore concentrazione.

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