www.impattosonoro.it, 29 luglio 20252025Diventa ciò che desideri essere: «Etnografie trap. Il potere delle vite immaginate», Francesca Buscaglia e i giovani trapper che sognano oltre
Torno, come già è stato per l’hyperpop qualche tempo fa, in un campo a me alieno e, in qualche modo, opposto. Questa volta tocca alla trap. Bistrattata, demonizzata, è un fenomeno che, a ignorarlo o schifarlo a prescindere, si fa grave errore, a maggior ragione se a farlo sono alfieri del “sacro altro”, altro che, svariate decine di anni fa, subiva lo stesso identico trattamento dalle generazioni cieche che lo avevano preceduto. È accaduto a jazz, rap, punk, metal e via discorrendo. E ad aver torto erano sempre i vecchi difensori del classico. Mica un caso.
Per comprendere il fenomeno, però, ho deciso di partire da un punto di vista più ampio e complesso. Da tempo mi chiedo perché la trap attecchisca di più e meglio in determinate circostanze, soprattutto anagrafiche, età che hanno dal loro tutto il potere della ribellione al sistema. Il mio bias, però, nasce dal fatto che ho guardato a questo genere partendo dal suo successo, quindi da artisti ampiamente affermati, soprattutto in Italia (da par mio, invece, ho subito il fascino di Denzel Curry, al di là dell’Oceano), commettendo l’errore più semplice in cui cadere, soprattutto per chi, come me, ha vissuto nell’underground tutta la vita. Francesca Buscaglia è però venuta in mio aiuto.
Antropologa, educatrice in un progetto di accoglienza, Buscaglia intraprende un viaggio tra gli Msna (minori stranieri non accompagnati) con cui lavora/ha lavorato, percependo come, per loro, la trap sia molto più che un semplice genere musicale. In Etnografie trap. Il potere delle vite immaginate, ci si immerge in un mondo molto specifico ché, come nel rap prima, sono le “zone” e le “scene” a determinare le differenze di sostanza, di contenuto e musicali. Ci troviamo a Milano, nel quartiere Molise-Calvairate, muovendoci tra questi giovani che immaginano, per l’appunto, una vita altra. Destreggiandosi nel dedalo burocratico, i ragazzi di Molise-Calvairate cercano il loro posto in una città che molto spesso li respinge e li stigmatizza. Il lavoro di Buscaglia differisce da tanti altri poiché non mette il fenomeno sul vetrino da laboratorio, ma ci cammina in mezzo, incontrando i giovani trapper, nominandoli, dando loro dei volti e una voce. Da quella voce, senza filtro alcuno, emergono situazioni di ogni tipo, ma di volontà comune. Una volontà più potente di molte altre. Ferrea.
Diviso in quattro sezioni distinte, “Ritualità e polifonie”, “Auto rap-presentazioni”, “Lo sguardo sull’‘altro’” e “La fabbrica di stereotipi”, Etnografie trap si dimostra essere un viaggio al cuore di un sistema complicato, particolare e che si spinge molto più in là del comune immaginario che siamo soliti incollare a questa scena. Gli anfitrioni di Buscaglia nel reame trap si dimostrano, passo passo e nonostante la giovane (spesso giovanissima) età, come persone che hanno ben presente cosa vogliono dal proprio lavoro artistico e da quello che lo circonda. Io, a 16 anni, avevo appena iniziato a suonare e non avevo la più vaga idea di cosa volessi ottenere dal mio percorso, né se ne avessi davvero uno. A distinguermi da Abdo, Hamza, Leoh, David, Gaber, Gouda (questi i nomi di alcuni di loro), c’è la necessità di un riscatto sociale che passa attraverso la musica e tutti gli annessi e connessi. “La musica trap, dunque, oltre che configurarsi come prodotto musicale, è la voce di una comunità immaginata, che offre alle comunità diasporiche dei giovani subalterni la possibilità di rispecchiarsi in un “noi” più moderno”, afferma Buscaglia, aprendomi gli occhi su una questione che non avevo preso in esame in prima battuta
Camminiamo assieme a loro in labirinti sociali che vengono esaminati con perizia dall’antropologa che, facendone parte per lavoro, ne legge luci e ombre senza risparmiarsi, analizzando come i ragazzi prendano la trap tramutandola in un rituale, una codifica e reimmaginazione del sé, anche a fronte dei propri alter-ego, con l’uso di gestualità e modi di porsi che si adattano anche fin troppo ai topoi neo-liberisti, usandoli per emergere e portare se stessi a un livello di accettazione altro. Questi ragazzi, come racconta l’autrice, hanno viaggiato in lungo e in largo, e quando parlano di “realness” (uno dei tanti codici chiave del mondo hip hop tutto), di strada, sanno quel che dicono, perché ci hanno vissuto davvero, in giro per l’Europa e oltre, fino ad arrivare qua, nel Paese Reale che fin troppo spesso li respinge, confinandoli nelle periferie. “La periferia non ha a che fare con la geografia ma con la marginalità sociale”, nient’altro che la verità, sono luoghi sociali prima che fisici, e di mentalità. I trapper, con i propri brani, imbastiscono un “escape plan” per fuggire dalla ghettizazione, anche grazie a quegli oggetti di cui parlano, anzi, cantano. Buscaglia approfondisce il ruolo che essi giocano nella nostra società, e di come i ragazzi non li vedano come oggetti siano ben altro che semplici beni di lusso. Tesse una tela socialogica, antropologica e lucidissima in mezzo all’ordito musicale preso in esame.
La trap, per queste persone, non è infatti qualcosa con cui aderire alla società così com’è impostata, bensì come un modo per ribellarvisi, cosa cui non avevo davvero mai ragionato, di come certi testi possano essere letti in chiave di rivolta totale a un sistema che schiaccia. Hanno contezza di tutto lo schifo che li circonda, molto più di tanti altri:
“Secondo te chi è il pubblico di Baby Gang? Leoh: Baby Gang canta di rivolta e mi ci rivedo un sacco. Contro il sistema. Tu vieni dal niente e vuoi avere tutto, puoi avere il diritto di dire quello che vuoi, quando vuoi e come vuoi, perché quello è vivere bene. Io adesso voglio alzarmi e gridare fanculo alla polizia, figli di puttana. Se vedo un carabiniere che abusa del suo potere lui deve essere punito! Se lo fa un ragazzo che non ha aiuti economici per pagarsi un avvocato quel ragazzo è rovinato; invece, se lo fa uno che ha la possibilità economica e sanno che è figlio di qualcuno a quel ragazzo non succede nulla. Purtroppo, funziona così, in tutti i posti d’Italia e del mondo.”
Di motivi per scontrarsi con questo sistema ne hanno, e non pochi. Buscaglia apre e chiude il suo racconto parlando della terrificante vicenda di Ramy, che lo scorso anno ha perso la vita a causa di un inseguimento coi carabinieri. Il punto più alto del libro è, per me, infatti la sezione in cui si scava negli stereotipi che hanno proliferato, spinti da una stampa sempre più ignorante e sorda alle realtà. Nomina i “folk devils”, e di come la gran parte della popolazione ci metta poco a trovare un nemico comune, e la musica che poco si allinea è, da sempre (e a questo punto per sempre) il terreno più fertile di tutti, basti pensare a quel che accadeva a punk e metalhead non più di vent’anni fa, e ancora oggi, con stuoli di dementi pronti a chiamare esorcisti di sorta piazzandoli davanti alle venue dei concerti. Ma la trap pare essere molto di più:
“I giovani migranti, soggettività multi-appartenenti, apolidi e in cammino, cercano da soli e altrove luoghi e ‘pari’ con cui sperimentare e giocare con i simboli delle culture in cui sono immersi, in cui incontrarsi e provare a fare casa, adattarsi, dissentire, contami-narsi. La musica trap, in questo senso, può diventare uno spazio di incontro non addomesticato, una dimensione in cui provare a essere altro e a spezzare l’incantesimo del ‘diventa ciò che sei’.”
Terminata la lettura mi sono quindi ritrovato a dover fare i conti con il mio pensiero pre e post Etnografie trap, una vera e propria mappa concettuale, immersiva, che parla lingue diverse, letteralmente, e ne prende ogni scampolo per piazzarlo, come una puntina, su un disegno ben più ampio di quanto non si creda. Non mi resta che ringraziare Buscaglia e tutti i suoi piccoli ma grandi trapper (e Agenzia X che continua a pubblicare opere fondative di questo tipo).
Per comprendere il fenomeno, però, ho deciso di partire da un punto di vista più ampio e complesso. Da tempo mi chiedo perché la trap attecchisca di più e meglio in determinate circostanze, soprattutto anagrafiche, età che hanno dal loro tutto il potere della ribellione al sistema. Il mio bias, però, nasce dal fatto che ho guardato a questo genere partendo dal suo successo, quindi da artisti ampiamente affermati, soprattutto in Italia (da par mio, invece, ho subito il fascino di Denzel Curry, al di là dell’Oceano), commettendo l’errore più semplice in cui cadere, soprattutto per chi, come me, ha vissuto nell’underground tutta la vita. Francesca Buscaglia è però venuta in mio aiuto.
Antropologa, educatrice in un progetto di accoglienza, Buscaglia intraprende un viaggio tra gli Msna (minori stranieri non accompagnati) con cui lavora/ha lavorato, percependo come, per loro, la trap sia molto più che un semplice genere musicale. In Etnografie trap. Il potere delle vite immaginate, ci si immerge in un mondo molto specifico ché, come nel rap prima, sono le “zone” e le “scene” a determinare le differenze di sostanza, di contenuto e musicali. Ci troviamo a Milano, nel quartiere Molise-Calvairate, muovendoci tra questi giovani che immaginano, per l’appunto, una vita altra. Destreggiandosi nel dedalo burocratico, i ragazzi di Molise-Calvairate cercano il loro posto in una città che molto spesso li respinge e li stigmatizza. Il lavoro di Buscaglia differisce da tanti altri poiché non mette il fenomeno sul vetrino da laboratorio, ma ci cammina in mezzo, incontrando i giovani trapper, nominandoli, dando loro dei volti e una voce. Da quella voce, senza filtro alcuno, emergono situazioni di ogni tipo, ma di volontà comune. Una volontà più potente di molte altre. Ferrea.
Diviso in quattro sezioni distinte, “Ritualità e polifonie”, “Auto rap-presentazioni”, “Lo sguardo sull’‘altro’” e “La fabbrica di stereotipi”, Etnografie trap si dimostra essere un viaggio al cuore di un sistema complicato, particolare e che si spinge molto più in là del comune immaginario che siamo soliti incollare a questa scena. Gli anfitrioni di Buscaglia nel reame trap si dimostrano, passo passo e nonostante la giovane (spesso giovanissima) età, come persone che hanno ben presente cosa vogliono dal proprio lavoro artistico e da quello che lo circonda. Io, a 16 anni, avevo appena iniziato a suonare e non avevo la più vaga idea di cosa volessi ottenere dal mio percorso, né se ne avessi davvero uno. A distinguermi da Abdo, Hamza, Leoh, David, Gaber, Gouda (questi i nomi di alcuni di loro), c’è la necessità di un riscatto sociale che passa attraverso la musica e tutti gli annessi e connessi. “La musica trap, dunque, oltre che configurarsi come prodotto musicale, è la voce di una comunità immaginata, che offre alle comunità diasporiche dei giovani subalterni la possibilità di rispecchiarsi in un “noi” più moderno”, afferma Buscaglia, aprendomi gli occhi su una questione che non avevo preso in esame in prima battuta
Camminiamo assieme a loro in labirinti sociali che vengono esaminati con perizia dall’antropologa che, facendone parte per lavoro, ne legge luci e ombre senza risparmiarsi, analizzando come i ragazzi prendano la trap tramutandola in un rituale, una codifica e reimmaginazione del sé, anche a fronte dei propri alter-ego, con l’uso di gestualità e modi di porsi che si adattano anche fin troppo ai topoi neo-liberisti, usandoli per emergere e portare se stessi a un livello di accettazione altro. Questi ragazzi, come racconta l’autrice, hanno viaggiato in lungo e in largo, e quando parlano di “realness” (uno dei tanti codici chiave del mondo hip hop tutto), di strada, sanno quel che dicono, perché ci hanno vissuto davvero, in giro per l’Europa e oltre, fino ad arrivare qua, nel Paese Reale che fin troppo spesso li respinge, confinandoli nelle periferie. “La periferia non ha a che fare con la geografia ma con la marginalità sociale”, nient’altro che la verità, sono luoghi sociali prima che fisici, e di mentalità. I trapper, con i propri brani, imbastiscono un “escape plan” per fuggire dalla ghettizazione, anche grazie a quegli oggetti di cui parlano, anzi, cantano. Buscaglia approfondisce il ruolo che essi giocano nella nostra società, e di come i ragazzi non li vedano come oggetti siano ben altro che semplici beni di lusso. Tesse una tela socialogica, antropologica e lucidissima in mezzo all’ordito musicale preso in esame.
La trap, per queste persone, non è infatti qualcosa con cui aderire alla società così com’è impostata, bensì come un modo per ribellarvisi, cosa cui non avevo davvero mai ragionato, di come certi testi possano essere letti in chiave di rivolta totale a un sistema che schiaccia. Hanno contezza di tutto lo schifo che li circonda, molto più di tanti altri:
“Secondo te chi è il pubblico di Baby Gang? Leoh: Baby Gang canta di rivolta e mi ci rivedo un sacco. Contro il sistema. Tu vieni dal niente e vuoi avere tutto, puoi avere il diritto di dire quello che vuoi, quando vuoi e come vuoi, perché quello è vivere bene. Io adesso voglio alzarmi e gridare fanculo alla polizia, figli di puttana. Se vedo un carabiniere che abusa del suo potere lui deve essere punito! Se lo fa un ragazzo che non ha aiuti economici per pagarsi un avvocato quel ragazzo è rovinato; invece, se lo fa uno che ha la possibilità economica e sanno che è figlio di qualcuno a quel ragazzo non succede nulla. Purtroppo, funziona così, in tutti i posti d’Italia e del mondo.”
Di motivi per scontrarsi con questo sistema ne hanno, e non pochi. Buscaglia apre e chiude il suo racconto parlando della terrificante vicenda di Ramy, che lo scorso anno ha perso la vita a causa di un inseguimento coi carabinieri. Il punto più alto del libro è, per me, infatti la sezione in cui si scava negli stereotipi che hanno proliferato, spinti da una stampa sempre più ignorante e sorda alle realtà. Nomina i “folk devils”, e di come la gran parte della popolazione ci metta poco a trovare un nemico comune, e la musica che poco si allinea è, da sempre (e a questo punto per sempre) il terreno più fertile di tutti, basti pensare a quel che accadeva a punk e metalhead non più di vent’anni fa, e ancora oggi, con stuoli di dementi pronti a chiamare esorcisti di sorta piazzandoli davanti alle venue dei concerti. Ma la trap pare essere molto di più:
“I giovani migranti, soggettività multi-appartenenti, apolidi e in cammino, cercano da soli e altrove luoghi e ‘pari’ con cui sperimentare e giocare con i simboli delle culture in cui sono immersi, in cui incontrarsi e provare a fare casa, adattarsi, dissentire, contami-narsi. La musica trap, in questo senso, può diventare uno spazio di incontro non addomesticato, una dimensione in cui provare a essere altro e a spezzare l’incantesimo del ‘diventa ciò che sei’.”
Terminata la lettura mi sono quindi ritrovato a dover fare i conti con il mio pensiero pre e post Etnografie trap, una vera e propria mappa concettuale, immersiva, che parla lingue diverse, letteralmente, e ne prende ogni scampolo per piazzarlo, come una puntina, su un disegno ben più ampio di quanto non si creda. Non mi resta che ringraziare Buscaglia e tutti i suoi piccoli ma grandi trapper (e Agenzia X che continua a pubblicare opere fondative di questo tipo).
di Fabio Marco Ferragatta
Radio popolare, 11 luglio 2025 Un “Noi” non addomesticato. Trap, minori stranieri e Milano nel libro di Francesca Buscaglia trap
Francesca Buscaglia, antropologa ed educatrice, è l’autrice del libro Etnografie Trap: il potere delle vite immaginate, pubblicato da Agenzia X. Un’indagine che parte dal quartiere milanese di Molise-Calvairate e dall’incontro con un gruppo di minori stranieri non accompagnati, per poi spostarsi in altre zone della città e oltre. Il filo conduttore sono la musica trap e le etichette che le sono state appiccicate addosso, a partire dalla “maranza” al centro del dibattito pubblico negli ultimi mesi. Il libro è anche un viaggio dentro la pratica educativa e i suoi limiti.
Francesca, che Milano hai visto scrivendo questo libro?
La ricerca mi ha portato a osservare i tanti strati della città, grazie soprattutto alla generosità dei ragazzi che ho incontrato. Mi hanno raccontato di relazioni di potere, di contesti che non avrei mai attraversato, forse nemmeno nel mio lavoro di educatrice. Ho visto una Milano fatta di passaggi, di spazi interstiziali, non sempre visibili o rappresentati.
Su quali quartieri ti sei concentrata?
Sono partita da Molise-Calvairate, dove ha sede una comunità di semi-autonomia per minori stranieri non accompagnati. Da lì, mi sono spostata in Barona, San Siro… ma più che i quartieri, sono stati gli attraversamenti a contare: i percorsi, i luoghi informali dove questi ragazzi si incontrano, si riconoscono, si raccontano. In Barona, ad esempio, sono andata perché sapevo che stavano girando un video lì, e ho conosciuto altri ragazzi, anche italiani, come uno di Pavia, che nulla aveva a che fare col background migratorio degli altri ragazzi. Ho incrociato alcuni dei luoghi legati alla messa in scena della trap. I nomi più noti sono Baby Gang, Simba La Rue, artisti con cui si identificano. La trap è una musica che parla direttamente a loro.
Hai incontrato solo ragazzi o anche ragazze?
Solo ragazzi. L’indagine voleva capire proprio quel tipo di appartenenza – musicale, estetica, culturale. Notavo che, una volta arrivati in quartiere, molti si sintonizzavano su certi codici: musica, modo di vestire, linguaggio. Mi chiedevo perché si ritrovassero in quel mondo e non in altri.
Che cos’è la trap per questi ragazzi?
È un luogo di appartenenza, un “noi” non addomesticato. Riguarda i minori stranieri non accompagnati, i ragazzi di seconda generazione, ma anche quelli nati in Italia da genitori italiani. La trap è uno spazio di parola per chi non ne ha. Chi è giovane, chi vive ai margini, ha poco accesso alla parola pubblica, alla rappresentazione. La trap, anche con le sue contraddizioni, offre un palcoscenico – una forma di espressione.
C’è consapevolezza dei rischi che certi immaginari comportano, il filo sottile legale-illegale?
È molto soggettiva. Alcuni ragazzi, soprattutto quelli che vivono sulla loro pelle i rapporti di potere, sono perfettamente consapevoli. Sanno cosa significa camminare per Milano e venire identificati, etichettati, fermati. Per altri, l’uso di certi simboli è meno riflessivo. In alcuni casi c’è una dimensione imprenditoriale nell’uso della trap; in altri, no. Di certo la trap mette in scena tutto questo, spesso in modo esasperato. Come dice la scrittrice filosofa anarcofemminista Virginie Despentes parlando del gangsta rap – e io trovo che valga anche per la trap – c’è una volontà di schernire il potere. Ma resta il dubbio: è una forma di protesta o una trappola? La domanda resta aperta.
Tu sei antropologa ma anche educatrice. Cosa ti ha lasciato questa esperienza, questo muoversi tra questi tuoi due ambiti?
Cercare di capire a quale bisogno di appartenenza risponda la comunità trap mi ha costretta a riflettere su che tipo di appartenenza produce invece il sistema di accoglienza e quindi riflettere sul mio lavoro. La scrittura mi ha fatto vedere il mio lavoro da un altro punto di vista. La trap – che inizialmente mi sembrava distante, disturbante, perfino respingente con i suoi testi sessisti, violenti, consumisti – mi ha permesso di fare “il giro lungo per tornare a casa”. I minori stranieri non accompagnati arrivano in Italia adultizzati dalle violenze del viaggio (in un’Europa che accoglie i minorenni e respinge gli adulti), ma una volta accolti vengono infantilizzati. Separati dai compagni, respinti se maggiorenni anche solo di un giorno, vivono in una contraddizione costante. La trap risponde a un bisogno vitale: riconoscersi in un “noi” più ampio, diasporico, non addomesticato dalle logiche post-coloniali delle politiche migratorie. È un tentativo di ricucire ferite identitarie provocate da uno sradicamento precoce dal proprio tessuto sociale.
Francesca, che Milano hai visto scrivendo questo libro?
La ricerca mi ha portato a osservare i tanti strati della città, grazie soprattutto alla generosità dei ragazzi che ho incontrato. Mi hanno raccontato di relazioni di potere, di contesti che non avrei mai attraversato, forse nemmeno nel mio lavoro di educatrice. Ho visto una Milano fatta di passaggi, di spazi interstiziali, non sempre visibili o rappresentati.
Su quali quartieri ti sei concentrata?
Sono partita da Molise-Calvairate, dove ha sede una comunità di semi-autonomia per minori stranieri non accompagnati. Da lì, mi sono spostata in Barona, San Siro… ma più che i quartieri, sono stati gli attraversamenti a contare: i percorsi, i luoghi informali dove questi ragazzi si incontrano, si riconoscono, si raccontano. In Barona, ad esempio, sono andata perché sapevo che stavano girando un video lì, e ho conosciuto altri ragazzi, anche italiani, come uno di Pavia, che nulla aveva a che fare col background migratorio degli altri ragazzi. Ho incrociato alcuni dei luoghi legati alla messa in scena della trap. I nomi più noti sono Baby Gang, Simba La Rue, artisti con cui si identificano. La trap è una musica che parla direttamente a loro.
Hai incontrato solo ragazzi o anche ragazze?
Solo ragazzi. L’indagine voleva capire proprio quel tipo di appartenenza – musicale, estetica, culturale. Notavo che, una volta arrivati in quartiere, molti si sintonizzavano su certi codici: musica, modo di vestire, linguaggio. Mi chiedevo perché si ritrovassero in quel mondo e non in altri.
Che cos’è la trap per questi ragazzi?
È un luogo di appartenenza, un “noi” non addomesticato. Riguarda i minori stranieri non accompagnati, i ragazzi di seconda generazione, ma anche quelli nati in Italia da genitori italiani. La trap è uno spazio di parola per chi non ne ha. Chi è giovane, chi vive ai margini, ha poco accesso alla parola pubblica, alla rappresentazione. La trap, anche con le sue contraddizioni, offre un palcoscenico – una forma di espressione.
C’è consapevolezza dei rischi che certi immaginari comportano, il filo sottile legale-illegale?
È molto soggettiva. Alcuni ragazzi, soprattutto quelli che vivono sulla loro pelle i rapporti di potere, sono perfettamente consapevoli. Sanno cosa significa camminare per Milano e venire identificati, etichettati, fermati. Per altri, l’uso di certi simboli è meno riflessivo. In alcuni casi c’è una dimensione imprenditoriale nell’uso della trap; in altri, no. Di certo la trap mette in scena tutto questo, spesso in modo esasperato. Come dice la scrittrice filosofa anarcofemminista Virginie Despentes parlando del gangsta rap – e io trovo che valga anche per la trap – c’è una volontà di schernire il potere. Ma resta il dubbio: è una forma di protesta o una trappola? La domanda resta aperta.
Tu sei antropologa ma anche educatrice. Cosa ti ha lasciato questa esperienza, questo muoversi tra questi tuoi due ambiti?
Cercare di capire a quale bisogno di appartenenza risponda la comunità trap mi ha costretta a riflettere su che tipo di appartenenza produce invece il sistema di accoglienza e quindi riflettere sul mio lavoro. La scrittura mi ha fatto vedere il mio lavoro da un altro punto di vista. La trap – che inizialmente mi sembrava distante, disturbante, perfino respingente con i suoi testi sessisti, violenti, consumisti – mi ha permesso di fare “il giro lungo per tornare a casa”. I minori stranieri non accompagnati arrivano in Italia adultizzati dalle violenze del viaggio (in un’Europa che accoglie i minorenni e respinge gli adulti), ma una volta accolti vengono infantilizzati. Separati dai compagni, respinti se maggiorenni anche solo di un giorno, vivono in una contraddizione costante. La trap risponde a un bisogno vitale: riconoscersi in un “noi” più ampio, diasporico, non addomesticato dalle logiche post-coloniali delle politiche migratorie. È un tentativo di ricucire ferite identitarie provocate da uno sradicamento precoce dal proprio tessuto sociale.
di Roberto Maggioni
tonyface.blogspot.com, 17 giugno 2025 Francesca Buscaglia - Etnografie trap
Un illuminante saggio sul "fenomeno" TRAP, la marginalità dei suoi protagonisti, il costantemente voluto e cercato "folk devil" da demonizzare per la sua alterità rispetto alla normalità.
L'analisi prescinde dai contenuti musicali/artistici ma si concentra sulle "periferie urbane, spazi pieni di sconosciuti, spazi multiculturali dove l'appartenenza rappresenta una risorsa fondamentale".
"La musica trap oltre a prodotto musicale è la voce di una comunità immaginata, che offre alle comunità diasporiche dei giovani subalterni la possibilità di rispecchiarsi in un ‘noi’ più moderno".
Interessante e perfettamente azzeccata la visione di come prima rap e poi trap siano diventati fenomeni globali e opportunità espressiva soprattutto di gruppi socialmente marginalizzati (per i quali il benessere esiste solo nelle pubblicità) che cercano (e talvolta trovano) nella musica un modo per uscire dall'anonimato e trovare fama, soldi e una modalità di scalata sociale. O imitandone movenze ed estetiche per sentirsi in qualche modo parte di "qualcosa".
In un mondo in cui "la geniale idea della governance neoliberale è stata riuscire a trasformare i diritti in qualcosa che si deve meritare" i giovani immigrati o di origine straniera si dibattono alla ricerca di un ruolo e di un'identità, sempre più pervicacemente negata e respinta.
La conclusione è propositiva, per quanto appaia utopica, alla luce del reale: "In questo momento è più che mai necessario... smettere i panni di meri osservatori e narratori di processi che riguardano "altri". Riprendere la voce: parlando, cantando, urlando se necessario. Proprio come stanno facendo, in modi e forme differenti, i giovani cosiddetti di prima e seconda generazione".
Il libro ha il profilo autorevole dell'autrice, educatrice di professione e antropologa, che lavora da anni nel sistema di accoglienza.
Ha intervistato i ragazzi, approfondendone con loro le problematiche quotidiane.
Ne esce una fotografia molto fedele, quanto drammatica dell'epoca attuale, convulsa, talvolta "illeggibile" e incomprensibile.
Un lavoro più che pregevole.
L'analisi prescinde dai contenuti musicali/artistici ma si concentra sulle "periferie urbane, spazi pieni di sconosciuti, spazi multiculturali dove l'appartenenza rappresenta una risorsa fondamentale".
"La musica trap oltre a prodotto musicale è la voce di una comunità immaginata, che offre alle comunità diasporiche dei giovani subalterni la possibilità di rispecchiarsi in un ‘noi’ più moderno".
Interessante e perfettamente azzeccata la visione di come prima rap e poi trap siano diventati fenomeni globali e opportunità espressiva soprattutto di gruppi socialmente marginalizzati (per i quali il benessere esiste solo nelle pubblicità) che cercano (e talvolta trovano) nella musica un modo per uscire dall'anonimato e trovare fama, soldi e una modalità di scalata sociale. O imitandone movenze ed estetiche per sentirsi in qualche modo parte di "qualcosa".
In un mondo in cui "la geniale idea della governance neoliberale è stata riuscire a trasformare i diritti in qualcosa che si deve meritare" i giovani immigrati o di origine straniera si dibattono alla ricerca di un ruolo e di un'identità, sempre più pervicacemente negata e respinta.
La conclusione è propositiva, per quanto appaia utopica, alla luce del reale: "In questo momento è più che mai necessario... smettere i panni di meri osservatori e narratori di processi che riguardano "altri". Riprendere la voce: parlando, cantando, urlando se necessario. Proprio come stanno facendo, in modi e forme differenti, i giovani cosiddetti di prima e seconda generazione".
Il libro ha il profilo autorevole dell'autrice, educatrice di professione e antropologa, che lavora da anni nel sistema di accoglienza.
Ha intervistato i ragazzi, approfondendone con loro le problematiche quotidiane.
Ne esce una fotografia molto fedele, quanto drammatica dell'epoca attuale, convulsa, talvolta "illeggibile" e incomprensibile.
Un lavoro più che pregevole.
Toni Face