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Rapropos
Rapologia.it, 26 settembre 2018 Rapropos, il rap racconta la Francia
Tempo fa girovagavo sul web alla ricerca disperata di un qualsiasi documento – scritto o visivo – che si rivelasse utile ad ampliare le mie conoscenze, ed il mio bagaglio culturale, in tema hip hop. Si tratta invero di una pratica alla quale sovente mi dedico; ritengo infatti che chi – come il sottoscritto – collabori con un portale specializzato in informazione musicale (rap in particolare) debba costantemente aggiornarsi ed affinare, oltre che approfondire, le proprie conoscenze. Sostengo fermamente la mia tesi dal momento che, benché io svolga tale attività più come passatempo universitario che come lavoro, reputo la professionalità ed il rispetto essere due elementi imprescindibili sia nei confronti dei lettori sia, in prima battuta, verso la mia stessa persona. Chiunque si imbatta in un percorso del genere dovrebbe essere mosso da questi due fattori al fine di fornire un’informazione il più possibile chiara, omogenea e lineare.
Mi trovavo dunque catapultato da un sito all’altro, quando inevitabilmente la mia attenzione cadde sul titolo di un libro: Rapropos. Il rap racconta la Francia, di Luca Gricinella.
Mi documento prima sull’autore: autore, con pubblicazioni per “Rumore” e “Alias – il manifesto” ove ha trattato l’hip hop da un punto di vista sociologico. Per un periodo ha vissuto a Parigi, ora si concentra principalmente su Blaluca Press, il suo ufficio stampa musicale con sede a Milano. Incuriosito decido così di ordinarne una copia su Amazon. Arrivatomi in consegna il libro di 168 pagine, impiego due pomeriggi a finirlo. Ne eseguo una seconda lettura più accurata. Mi accingo di seguito a fornirvi una quanto più possibile panoramica degli argomenti trattati.
L’opera si sviluppa principalmente attorno alla dialettica che intercorre tra istituzioni e musica rap in Francia. Evidente è la cesura netta se si tenta di compiere un parallelismo tra la realtà d’oltralpe e quella nostrana. Si evince fin da subito un diverso approccio, oserei parlare di mentalità, verso l’hip hop inteso come movimento culturale in cui molti giovani e, sopratutto, banlieunsard, si identificano. Il rap in Francia è strumento in mano agli “ultimi”, agli esclusi ed agli emarginati. Nel marasma generale che un giovane cittadino francese, abitante della banlieù parigina ed immigrato di seconda generazione, vive quotidianamente, il rap si pone come uno spiraglio di luce in un mare di nebbia: diviene elemento per poter reagire ad una evidente crisi sociale. La musica diventa un’arma più potente delle armi; gli artisti denunciano l’evidente “guerra fra poveri” delle realtà extraurbane tentando di risvegliare gli animi dei più che paiono ormai essere assuefatti a tale condizione.
Per rendere meglio l’idea, mi piacerebbe utilizzare in questo frangente un passo del libro che mi ha molto colpito: mi riferisco alla parte in cui Gricinella si focalizza sulla forza espressiva, e sull’essenza autentica, dell’hip hop in Francia assumendo come riferimento Homeboy, libro autobiografico del rapper Florent Le Reste. Cito testualmente: “L’hip hop da Homeboy ne esce come l’unico mezzo per canalizzare l’energia rabbiosa dei giovani banlieusard, l’aggressività generata dalle frustrazioni. Una reazione al fallimento, all’ inconsistenza, all’ impreparazione e alla supponenza dell’ associazionismo civile e della politica partitica”.
Viene messa in luce la “forza primordiale” del rap, ovvero quella di essere un medium -facilmente recepibile dai più – in grado di evidenziare l’ipocrisia celata di un intero paese e di una classe politica rea di non essere riuscita a creare un dialogo costruttivo con i giovani delle periferie.
Ciò comporta l’instaurarsi di un rapporto conflittuale tra politici ed esponenti del genere musicale gallico: il rap viene osteggiato e considerato “pericoloso”, si accusano gli artisti di mettere in atto veri e propri processi di indottrinamento nei confronti dei giovani cittadini francesi. La versione che si vuole accreditare è quella di una musica sovversiva in grado di cancellare quei valori etico-civili e quel principio costituzionale di legalità, che dovrebbero guidare la maggior parte della popolazione nelle ricorrenti scelte quotidiane. Il rap non viene capito, o forse non vuole essere capito. L’hip hop in Francia svela la propria abilità nel risvegliare la coscienza critica delle persone: è l’arma più potente per combattere i “benpensanti”.
A proposito di benpensanti, alla fine degli anni ’90 un certo Frankie HI-NRG MC pubblicava qui da noi il singolo Quelli che benpensano, brano contenuto all’interno dell’album “La morte dei miracoli”. La domanda sorge spontanea: perché in Italia non siamo riusciti, almeno apparentemente, a portare a termine un fenomeno politico-musicale simile a quello dei nostri cugini d’oltralpe? Perché in Italia il rap politicizzato non passa in radio o in televisione? Perché non si sente mai nessun politico citare la cultura hip hop?
Viene così messa in luce una peculiarità propria dello “stivale” rispetto alla realtà francese: in Italia tale movimento culturale sembra non essere più di tanto amalgamato ad altre discipline (politica, cinema o letteratura) come accade invece in Francia. È lo stesso Gricinella infatti a citare spesso – all’ interno del suo libro – pellicole cinematografiche o letture collegate al genere hip hop (a riguardo consiglio anche l’acquisto di Cinema in rima, opera dello stesso autore). Il rap della penisola sembra ricoprire un ruolo fortemente solista.
Anche noi abbiamo avuto un periodo d’oro, la cosiddetta “Golden Age” del rap italiano targata anni ’90. Poi il vuoto, ci siamo fermati. Cosa è capitato? Gli artisti non ci hanno “più creduto”? Potremmo citare gruppi un poco più politicizzati quali 99 Posse, Assalti Frontali o i primissimi Sangue Misto, prodotto culturale di un insegnamento marcatamente proveniente dai centri sociali. Si tratta invero di voci fuori dal coro. Vengono tutt’ora realizzati brani con finalità di critica sociale, ma il vero problema è che spesso – artisti e brani – non godono della conoscenza o degli spazi che meriterebbero. Mi piacerebbe esporre il mio pensiero dinnanzi ad una simile situazione. Ritengo che a causa di questo “deficit culturale” vadano a maggior ragione valorizzate tutte quelle piccole realtà, enti, artisti o manager musicali che cercano costantemente di rendere il rap “materia viva” tramite l’organizzazione di laboratori o di conferenze su precisi argomenti coerenti con il genusHip hop. Ciò che a volte sembra mancare al rap italiano è quella propensione a fungere da “collante” con altre discipline o contesti socio culturali diversamente – come prima precisato – da quanto invece avviene in Francia. Ho sempre avuto la sensazione che il panorama rap italiano fosse avvolto, per sua sfortuna, in un’aurea di puro asetticismo.
Secondo me in pochi hanno capito davvero il potenziale di questo potente mezzo di comunicazione. Probabilmente risulterò monotono ed utopistico, ma questa musica ha davvero la capacità di poter cambiare la realtà delle cose. Soprattutto in ambienti meno alfabetizzati, quale mezzo risulta essere più diretto, facilmente comprensibile ed espressivo del rap? Leggevo poco fa Dietrologia di Fabri Fibra: questi elaborava un preciso ragionamento attorno all’ argomento rap sostenendo la forza propulsiva di tale fenomeno. Mi pare che definisse il rap – parafraso – “voce rabbiosa”, o ribelle, a disposizione dei giovani.
C’è anche da sottolineare, come lo stesso Gricinella ribadisce più volte, che probabilmente in Francia l’hip hop è riuscito a coinvolgere molte più persone data la caratteristica fortemente multietnica della società gallica. La Francia è sempre stata terra di migrazione, lo testimonia la nazionale francese composta per la maggior parte da giocatori di colore. C’è sicuramente stato un processo di apertura culturale e di assimilazione dettati da un’attitudine cosmopolita. D’altro canto è anche vero che la Francia ha recentemente dovuto fronteggiare i famosi “immigrati di seconda generazione”, i quali si sono talvolta macchiati di gravi crimini e di pesanti illeciti penali o civili. Questa situazione anomala è solamente il prodotto di un inefficace sistema di integrazione che ha mostrato in più occasioni le proprie falle. Ecco dunque che in un simile contesto il rap tenta di sopperire a tale mancanza istituzionale cercando di impartire ai più un codice di comportamento nel rispetto delle regole e della pace sociale.
Non posso fare altro che concludere suggerendovi di comprare il libro, edito per il laboratorio editoriale “Agenzia X” che, sul proprio sito, si definisce “luogo partecipativo che prova a mettere in relazione diverse intelligenze, da quelle accademiche ai saperi espressi dalle culture underground”. Vi consiglio di sfogliare il catalogo dei libri proposti sul sito, essendo una redazione incline a pubblicare letture “ragionate” ed opere di saggistica di autori con un certo spessore culturale (potrei citare, sempre rimanendo in argomento rap, Stand 4 what di u.net che recentemente ha ricevuto una nota di merito anche sulla rivista “Rumore”).
Buona lettura a tutti quanti!
Marco Carlotti
www.weblack.it, 9 marzo 2013Intervista a Luca Gricinella: scena hip hop italiana e francese a confronto
Luca Gricinella è l’altra faccia dell’Arte. È un promotore, un comunicatore e una sorta di “sociologo dell’epoca Urban”. Fra le sue attività compaiono quelle di Giornalista/Blogger, Addetto Stampa e Scrittore (le maiuscole sono assolutamente volute!!!). Qualche mese fa ha pubblicato un libro molto interessante sulla scena Hip Hop Francese, che ha raccontato e analizzato in un’intervista su HotMc che consigliamo vivamente di leggere. Noi siamo partiti dal suo libro per arrivare a parlare dell’Italia. È un vero piacere per noi “ospitarlo” in queste pagine. Luca Gricinella è una delle persone più colte, più informate e più umili che il roster italiano possa offrire.

Credo che tu sia “una delle interviste più difficili e complesse” che mi sia mai capitato di fare. A livello musicale e a livello fiscale...! Te l’avranno chiesto tutti, ma credo che sia giusto iniziare da qui per contestualizzarti. Chi è il giornalista Luca Gricinella? Come nasce? Come incontra la scrittura e il mondo del giornalismo?
Non credo sia giusto definirmi giornalista. Non per falsa modestia ma perché il mio vero lavoro è quello di ufficio stampa. Inoltre nel corso di questi ultimi anni per varie questioni ho lasciato andare delle collaborazioni con una serie di testate, non solo musicali. Più in generale però, posso dire di lavorare con la scrittura oltre che con la comunicazione. Questo sì. Premesso ciò, ti racconto che nel 2000, quando ho terminato il corso di sceneggiatura presso la Civica Scuola di Cinema di Milano – un biennio di formazione professionale a tempo pieno –, avevo già realizzato da un po’ che scrivere per il cinema era quanto meno arduo, specie vivendo a Milano (e non avevo intenzione di trasferirmi a Roma, nonostante ci sia nato e ci abbia vissuto da 0 a 6 anni). Scrivevo raccontini (proprio –ini, in tutti i sensi) ma volendo che la scrittura diventasse qualcosa di più serio, ho iniziato a proporre articoli a siti e riviste di cinema e musica. Musica perché, pur non avendola studiata, da quando sono ragazzino è una passione, in particolare da fine anni Ottanta/inizio Novanta il rap, grazie alle prime rime in italiano, mi ha coinvolto non poco. E dopo qualche contributo on line, il primo articolo per una rivista l’ho scritto per il bimestrale “World Music” (poi confluito ne “Il Giornale della Musica”). Non a caso si trattava di un pezzo sulle musiche per il cinema, nello specifico indiane. L’asian beat all’epoca era in voga e anche raccolte come Bollywood Funk – le colonne sonore cinematografiche, soprattutto quelle strumentali anni Settanta, in generale sono una mia passione. Poi è arrivato “il manifesto”, specie il suo inserto culturale “Alias”, e “Rumore”, in primo luogo perché erano le testate che leggevo da anni, su cui seguivo firme come Marco Boccitto, Marco De Dominicis, Francesco Adinolfi, Alberto Campo, Paolo Ferrari e altri che ora di certo dimentico. Da qui sono nate altre collaborazioni, anche sporadiche, da “Urban” a “Superfly”, da “Beat Magazine” a “Il Riformista” passando per le riviste di Slow Food e per quelle testate dove ho pubblicato solo un pezzo, come “Diario”, “Duel” o il sito de “L’Espresso”. Ora però non vorrei che la risposta diventasse un surrogato del mio curriculum.

Rapropos. Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro? Qual è stata la reale motivazione che ti ha catapultato nell’esigenza di pubblicare il tuo scritto?
Lavorando con la scrittura, dopo qualche anno di esperienza si trattava di mettere questa a disposizione... E della mia esperienza fa parte anche un soggiorno di circa un anno a Parigi, nel 1996, oltre a vari viaggi in Francia – provincia compresa – e anni di studi di francese. Somma tutto e ci sei. Anche se, a dirla tutta, l’idea concreta è nata anche grazie al mio blog : quando ti rendi conto che tratti con discreta facilità e piacere un argomento, tornandoci a più riprese, puoi anche pensare di prenderti il tempo per approfondirlo. Senza contare che U.net mi invitava da tempo a proporre idee ad Agenzia X, e visto che si tratta di una casa editrice accessibile e con cui avevo un rapporto per aver recensito vari loro libri, il cerchio si è chiuso.

Quali sono i temi che tocchi nel libro? Di cosa parla? Cosa vuol dire Rapropos?
Il mio saggio si prefigge di raccontare la società francese e, di riflesso, la società contemporanea, tramite il rap. La società francese in questo senso è ideale perché la storia del paese e il background e l’origine di tanti rapper fanno in modo che il rap sfondi spesso la porta della massa che non lo segue. E Rapropos, riprendendo il gergo del verlan, che prevede l’inversione delle sillabe di singole parole, è un gioco di parole in cui mi sono preso la licenza di invertire l’espressione “à propos de rap” (“a proposito di rap”), perché quello che racconto – si tratti di razzismo, periferie metropolitane, omofobia, militanza politica, religioni – lo faccio attraverso la lente di ingrandimento del rap. Perché il rap in Francia è davvero popolare, non solo vende tanto ma è ovunque, fa parte della società, nonostante ai piani alti questo non piaccia. Se vuoi, in questo senso è uno dei lati buoni dell’economia: se vendi centinaia di migliaia di cd o file musicali, se la gente va al cinema a vedere un film perché ci sei tu o compra un libro che racconta la tua storia o segue una trasmissione tv di cui sei ospite, non ci può far niente neanche il politico più in vista del paese... L’iter descritto può farlo anche chi non ha nulla da dire, ma il rap francese per natura, anche quando i rapper parlano di se stessi, ha spesso un risvolto sociale.

Mi dici come hai pianificato il tuo lavoro, come ti sei documentato e come sei arrivato ad avere una visione così chiara della scena francese? Insomma... come studia Luca Gricinella? Da dove trae informazioni e nozioni?
Oltre all’esperienza di cui parlavo prima, che comprende conoscenza e scambio di informazioni con vari francesi (chiaramente), nei viaggi fatti durante la stesura del libro ho passato molto tempo nelle librerie. In Francia, bando ai luoghi comuni, ci sono librerie molto belle e molto grandi, anche di libri usati. Senza nulla togliere alla Fnac (perdona la pubblicità), che essendo francese resta un punto di riferimento per argomenti che toccano la Francia. Per scegliere i libri mi consultavo con chiunque, dal commesso all’insegnante di musica passando per un’amica fotografa che vive a Parigi e per la corrispondente de “il manifesto” da Parigi, Anna Maria Merlo. Oltre alle letture di saggi e biografie, tantissimi ascolti, analisi dei testi rap e poi abbonamento “forzato” a “Le Monde” oltre che monitoraggio di tutte le testate transalpine (“Le Figaro” compreso, quotidiano di riferimento all’area di centro-destra). Poi ho fatto qualche intervista, ho visto e rivisto vari film e documentari, tirato fuori dagli scatoloni vecchie riviste (Paolo Ferrari su “Rumore” ha parlato spesso di rap francese) e via di questo passo. Detta così sembra che ho ignorato internet quando in realtà tutto è passato in primo luogo sempre da lì. Tra l’altro le webzine specializzate e gli account dei vari rapper sui social network sono stati molto utili.

Qual è stata la percezione più immediata del pubblico italiano? Credi che le “teste hip hop” nostrane abbiano apprezzato lo sforzo e il tuo intento? In sintesi: quanto interessa il tema francese (con tutte le sue sfaccettature!) a chi segue l’hip hop e l’urban in Italia?
Francesi e italiani hanno degli strani pregiudizi e complessi gli uni nei confronti degli altri. Acuiti anche dalle sfide sportive – specie calcistiche – degli ultimi anni, inutile negarlo. Cito un passaggio di un articolo dello scrittore Giuseppe Scaraffia: “I francesi hanno un complesso d’inferiorità verso l’inarrivabile patrimonio artistico italiano e gli italiani ce l’hanno verso la raffinatezza intellettuale francese”. Questo secondo me è vero, ma è una parte delle strane dinamiche tra due paesi così vicini, non solo geograficamente, che hanno interagito e interagiscono in vari campi ma poi a un certo punto, capita che si soffrono. Più o meno la stessa insofferenza che può capitare tra parenti. E questa premessa è utile a dire che in Italia c’è chi non considera affatto il rap francese, lo ignora, e per lo più – così sento dire – per questioni di lingua. Anche se il francese è una lingua latina in qualche modo comprensibile da qualsiasi italiano, anche da chi non l’ha studiata. Escludendo questa massa, direi che ho ricevuto riscontri positivi, specie dagli amanti dell’hip hop capitati per caso alle presentazioni e che si appassionavano a discutere del potenziale del rap. Da chi veniva apposta invece ho scoperto che il rap francese è stimato anche da queste parti, un po’ ovunque (Milano, Bologna, Firenze, Roma, Lecce ecc...). Se calcoli che qui sono stati distribuiti fisicamente pochissimi album di rap francese, tutti gli appassionati italiani delle rime a tempo francofone sono una bella sorpresa. Insomma ce ne sono! D’altronde per noi italiani credo che Parigi sia la prima meta turistica tra le grandi città straniere. Le cose dunque se non ti arrivano te le vai a cercare o magari le incontri e ti attirano perché ti fanno sentire a casa tua (vedi l’aspetto tribale dell’hip hop). Sempre senza calcolare internet. Aggiungo infine che ho riscontrato molto interesse dai laureandi delle facoltà umanistiche. Più di uno mi ha contattato per approfondire le questioni del libro. Tutte persone lontane dal mondo hip hop ma interessate al tema.

Come hai scoperto l’hip hop in generale?
In un liceo della periferia milanese ascoltando in cuffia dal walkman di un compagno di classe le prime rime a tempo in italiano. Conoscevo già i Beastie Boys , ma ancora non ero fanatico di quei ritmi e suoni. Poi, specie con Stop al panico e dopo aver visto dal vivo proprio gli Isola Posse All Stars – per strada di fronte alla casa occupata di Via Gorizia – ho iniziato a comprare qualsiasi singolo uscisse. Perché all’inizio abbiamo aspettato almeno un paio di anni buoni per andare a comprare il primo vero e proprio album di rap in italiano. Nel primo periodo si stampavano solo 12”, compilation o mini LP.

Da quando ti sei approcciato tu ad oggi... di cose ne sono successe. Come sono cambiate le cose? Cos’è successo nel frattempo in Italia? Quali sono le differenze, i peggioramenti o i miglioramenti?
Nei primi anni Novanta movimenti e culture alternative hanno reagito al decennio precedente, quello della nascita del “berlusconismo”, per intenderci. E il rap in un primo momento si è trovato per natura (in quanto “voce dei senza voce”) coinvolto in questi ambienti. Questo fermento ha creato spazi di popolarità anche per il rap in italiano, finito a più riprese in tv (vedi Avanzi su RaiTre), sui giornali e al cinema (vedi Sud di un Salvatores fresco di premio Oscar). Successivamente però, quando il rap si è trovato di fronte alla necessità di definire autonomamente una propria identità, per qualche anno si è perso. Da lì a poco si sono fatte avanti le major. Ora, come si sa, a suo modo il rap è popolare e finalmente ha conquistato una volta per tutte, senza distinzioni, anche le nostre periferie. Di fatto questo passato consapevole che ha dato un’impronta – tuttora individuabile – e questa attitudine pop di oggi, potenzialmente sono una risorsa specifica della nostra scena. Bisogna capire se la stiamo sfruttando appieno, buttandoci dentro idee originali e autonome. Credo si capirà tra qualche anno. Sta accadendo proprio ora, dunque si potrà giudicare meglio tra un po’.

E in riferimento all’hip hop Francese? Cosa cambia fra i due periodi storici?
Il rap francese ha raggiunto molto prima dell’Italia la popolarità e in questo senso ha toccato picchi incredibili. La Francia è il secondo mercato hip hop al mondo dopo gli Usa, un paese dove ancora oggi i dischi rap vendono 500mila copie. Ora purtroppo, dopo gli storici screzi tra Marsiglia e Parigi (alimentati soprattutto da Joeystarr degli NTM, vera testa calda), è un periodo in cui i dissing vanno molto. Su un libro di Florent Le Reste che parla di rap ma non solo – e che cito in Rapropos – si legge: “Pochi svoltano, non tutti possono avere fortuna, talento e quell’accanimento nel lavoro necessario alla riuscita. La maggioranza resta per strada e questo genera molta delusione, persone inacidite e gelose. Come in ogni campo il rap non scappa agli intrighi. Tra gli artisti di questo ristretto ambiente, i regolamenti di conti e i veri o falsi scontri sono parecchi. Stiamo d’altronde aspettando, senza indietreggiare, il primo omicidio di un rapper francese...”. Speriamo dunque che l’aggressività si plachi. Ma come sempre, tanto dipende dalla situazione sociale.

Quali sono le altre tue “passioni” e materie di studio e ricerca?
Ho studiato cinema, come dicevo prima, dunque insieme alla musica ci sono prima di tutto i film. Difficilmente mi appassiono alle fiction tv, anche se ora ce ne sono parecchie notevoli, ma cerco di andare spesso al cinema. E a livello di sceneggiatura quest’anno ho apprezzato molto Ruby Sparks. Poi, come si vede dal mio blog, ho viaggiato qualche volta in Argentina, un paese dove in qualche modo mi sento a casa e che da anni è in movimento, in ricostruzione, dove succedono molte cose, anche a livello culturale (hanno una scena di giovani cantautori davvero buona). Lì ho amici e pure qualche parente. Il fatto è che è troppo lontano da qui e il viaggio costa tanto. La Francia invece è qui di fianco e ci si va con 30 euro a tenere d’occhio le occasioni.

Si può dire che tu abbia una grande preparazione... quello che poi serve per essere un buon giornalista, anche se tu dici non sentirti tale!!! Parlando proprio di questo... com’è la situazione giornalistica Italiana (specificatamente riferita all’hip hop!)?
Innanzi tutto, grazie del complimento. Anche se – ribadisco – i veri giornalisti sono altri, quanto meno quelli che possono dedicarsi a tempo pieno alla materia di indagine. Che poi riescano a campare o meno di giornalismo, è un altro discorso. Riguardo alla domanda, a costo di sembrare retrogrado, ma facendo riferimento agli insegnamenti ricevuti da chi scrive da parecchi più anni di me, ti dico che una parte del giornalismo hip hop (ma non solo) soffre molto dell’abuso di gergo e parole in inglese. Alcuni pezzi sembrano proprio non passare in redazione o comunque sotto un altro occhio, perché in una redazione, da come le conosco io, di certo si tollera “la tracklist” ma non “la track” o “la song”, per esempio. Più o meno questo stile fa parte di una “scuola” di scrittura giovanilistica venuta alla ribalta negli ultimi anni e che, per dirne un’altra, usa i social network per creare dibattiti in cui sembra convenga ci sia uno scontro in cui volino paroloni. Il social network può essere una buona vetrina per un giornalista o blogger ma le discussioni nel 90% dei casi finiscono per essere inutili (una sorta di “muro contro muro”) se non al titolare del profilo su cui campeggia lo status da cui si è generato tutto. Questo non significa che le snobbi, ossia che non le legga, non cerchi di generarne o non vi partecipi. Anche perché a loro modo restano interessanti, su alcuni profili che non hanno i tratti che descrivo, anzi, e in generale hanno un potenziale da tenere d’occhio. Però, aspetta, sto parlando solo di forma e atteggiamenti. Riguardo alla sostanza ti dico che a me è sempre interessato di più l‘aspetto sociologico della musica piuttosto che quello tecnico, insomma da quale ambiente culturale e in quale periodo storico nasce un ritmo, non tanto i suoi bpm. E da lettore mi interessa chi argomenta, spiega o comunque mi permette di scoprire, non chi vuole parlare solo per compiacere sé e piacere ai suoi simili e dunque afferma e basta, magari ricamando il testo con metafore a effetto e cercando di provocare. Se il presente è questo, dunque figlio inconscio (?) del berlusconismo, e potenzialmente materia da psicologi più che da lettori curiosi, preferisco rifarmi allo stile classico. Che poi, per dire, “Superfly” è stato un esempio di ottimo giornalismo italiano in ambito “urban”. Ma chi lo dirigeva aveva un’idea precisa di giornalismo, era molto selettivo e voleva far scoprire, approfondire e magari dare gli elementi per capire meglio un artista o un ritmo. Forse gli eredi odierni di una simile esperienza sono gli under 25 che portano avanti siti e blog per passione e che dimostrano di essere curiosi, attenti, aperti, disposti ad ascoltare le proposte altrui. Forse. Stiamo a vedere...

Ti confermo che nelle redazioni... lavorano i correttori di bozze e gli articoli escono con una certa forma. Ma lo sai.... Forse mi viene in mente che... oggi la parola giornalista (in ambito hip hop) sia anche un po’ abusata. Vorrei collegarmi al discorso del web e del settore editoriale. Se ne parla da tanto... come vedi i parametri di scelta e selezione per parlare di un artista o meno? Tu lavori anche come addetto stampa e penso che potresti rendertene conto più di altri... qual è il ruolo che giocano alcuni dei magazine e dei siti più importanti in merito alla fruizione di un prodotto?
Che dire? Non credo di essere nella posizione di poter discutere le linee editoriali di questa o quella testata. In questi casi si corre il rischio di fare la morale e poco altro. Ma a quale titolo? È una cosa che lascio fare volentieri ai lettori non coinvolti in questo campo professionale. In ogni caso credo sia giusto rivendicare il diritto di fare scelte che rispondono ai propri gusti... c’è il luogo comune che il giornalista dovrebbe essere imparziale, quando un critico secondo me deve rispondere anche ai propri gusti. Sta al lettore prendersi la briga di capire se possono essere in linea con i suoi. Parlando da ufficio stampa invece posso dirti che cerco di capire la linea editoriale di una testata per non fare proposte fuori luogo. Che poi è la stessa cosa che fa un giornalista quando bussa alla porta di una redazione per proporre un articolo. Insomma, a me compete prendere atto di questi parametri di selezione, nient’altro.

In Francia invece com’è la situazione di blog, siti e magazine settoriali?
Quando pochi mesi dopo averlo incontrato ho risentito il caporedattore di “Rap Mag” – che intervisto nel libro – e mi ha detto che la rivista chiudeva causa crisi, sinceramente sono rimasto sorpreso non poco. Ho capito che la situazione francese della stampa musicale, a livello di vendite, non è così diversa da quella italiana. Parlando di qualità, ci sono dei siti francesi che hanno una credibilità simile a quella di una rivista cartacea. Mi viene in mente il fu “Bokson”, ora diventato “Mowno”. Per me “Bokson” era un punto di riferimento alla pari di certe testate inglesi e americane. E anche “Mowno” non è male, anche se è un’altra cosa.

Io sono quella delle domande creative... se tu fossi a capo di una rivista di musica urban, cultura e cinema... quali sarebbero i tuoi presupposti, gli obiettivi, i valori e il “manifesto etico” che ti prefiggeresti?
Anche qui non saprei a quale titolo rispondere. Potrei dire di fare riferimento al mio blog, ma lo curo a tempo perso (e sempre meno, ahimè), dunque fa testo fino a un certo punto (e resta sempre un blog). Ma più che altro mi piace l’idea che ognuno mantenga il suo ruolo. A parte al bar, certo, nel senso che all’osteria di fianco a dove vivo siamo tutti a turno – e a pieno diritto – segretari di un partito politico, allenatori di una squadra di calcio, sindaci di una città e via così. Sempre con un bicchiere di vino davanti, però... (n.d.r. Sorride)

Ti ringrazio per lo spazio... In cambio devi promettere che sarai garante di “giustizia” nei confronti della nostra nuova rubrica curata da Zatarra. Girano voci che potrebbe anche parteggiare solo per il rap di Marsiglia!
No, grazie a voi per lo spazio! Per il resto, pur adorando Akhenaton, pur ritenendo gli IAM autori di uno dei dischi hip hop francesi (ma non solo) più belli di sempre – “L’école du micro d’argent” –, pur avendo conosciuto – proprio grazie a Zatarra – Dj Djel della Fonky Family, un dj con una cultura musicale incredibile e una concezione dell’hip hop notevole, continuano a piacermi più cose che arrivano da Parigi piuttosto che da Marsiglia. Ma forse dipende anche dal fatto che conosco molto meglio Parigi di Marsiglia. Dunque seguirò la rubrica di Zatarra prima di tutto con interesse!
www.sentireascoltare.com, 14 ottobre 2012Libri sull’hip hop: Louder than a bomb + Rapropos
Segnaliamo una nuova uscita per la milanese AgenziaX e sodali e cogliamo l’occasione per un ripescaggio a tema.
Il primo libro è il nuovo volume della saga sulle radici e gli sviluppi dell’hip hop classic/old school di Giuseppe Pipitone alias u.net. Da anni Giuseppe, classe 1972, si occupa di storia e cultura afroamericana, viaggiando e studiando dall’interno le comunità urbane nere e i loro gruppi musicali e artistici.
Curatore di hiphopreader.it (sito nato nel 2004), collaboratore di “Alias-il manifesto”, è stato membro dell’Advisory Board del Black Soil International Film Festival di Rotterdam. Nel 2006 pubblica il primo capitolo, Bigger than hip hop. Storie della nuova resistenza afroamericana, una “mappa sui più recenti sviluppi della cultura hip hop statunitense, punto di riferimento obbligato della musica, del linguaggio e dello stile di vita nero. [... Con] le testimonianze di artisti quali M1 dei Dead Prez e Boots Riley di The Coup e alle riflessioni di critici quali Bakari Kitwana e Greg Tate, [... il volume] traccia un itinerario attraverso il rap, la street art, il cinema e le componenti politiche e sociali che stanno alla base di quest’ondata di creatività proveniente dai ghetti postindustriali”.
Nel 2008, il secondo, Renegades of funk. Il Bronx e le radici dell’hip hop, dedicato appunto al ruolo centrale che il quartiere newyorkese ha avuto nella nascita e nella definizione della cultura old school. La struttura è ancora quella di una oral history, con le testimonianze dirette di chi c’era: “da Trac2 a Tracy 168, da Charlie Chase a Rodney C!, da Rammellzee a Busy Bee”. In allegato un cd, in cui i “più noti musicisti hip hop italiani [...] rappano i diversi capitoli” del libro: Donald D, DJ Pandaj, Cuba Cabbal, Dsastro, Esa, Shablo, Painè, Lord Bean, NightSkinny, Mastino, Militant A, Bonnot, Tormento, TDC21, Vaitea, Polo, Kiave, Lugi, Ghemon Science, MacroMarco, DJ Mike, DJ Aladyn. Sia i libri, che il disco, sono stati resi disponili in free download in regime creative commons (link a fine testo).
Chiude - per il momento - la serie il nuovo (10 ottobre) Louder than a bomb. La golden age dell’hip hop, che attraverso le testimonianze di prime movers come Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin, Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy, ricostruisce il momento cruciale in cui l’hip hop è uscito dal ghetto ed è diventato un fenomeno mainstream. Il volume racconta quindi l’influenza di questa cultura street e inurbata nella aree suburbane americane, il suo arrivo in Europa e il suo impatto in generale sul lifestyle e la cultura popolare mondiali. Anche per Louder è stata realizzata una colonna sonora, un godibilissimo mixone di 40 minuti (embed a fine testo) - con dentro Erik B & Rakim, Public Enemy, Boogie Down Productions, Jazzy Jeff & Fresh Prince, Run DMC, Beastie Boyes, LL Cool J - realizzato da uno che di vecchia scuola se ne intende, ovvero Dj Stile, storico turntablista della scena italiana anni Novanta (lo trovate per esempio a scratchare su La Morte dei Miracoli di Frankie Hi-Nrg, 1997).
Il recupero a tema è invece il saggio Rapropos. Il rap racconta la Francia (marzo, sempre per Agenzia X) di Luca Gricinella, giornalista freelance (“Alias-il manifesto”, “Rumore”), curatore dell’ufficio stampa BlaLuca Press e del blog BlaLuca (sempre molto attento alla scena dei beatmakers e dei rapper italiani). Il libro è un’analisi del rap francese degli ultimi vent’anni e in particolare del suo ruolo politico. Qui di seguito la presentazione dalla quarta di copertina.
“Preso di mira dai politici, denigrato dalla stampa, temuto dalla classe media, boicottato dall’estrema destra, corteggiato dal cinema e citato dalla letteratura. In Francia da oltre vent’anni il rap è il genere musicale che anima maggiormente il dibattito pubblico, a cui partecipa anche senza invito: che si parli di religione, omosessualità, sessismo, identità nazionale o calcio, l’hip hop esprime le sue opinioni senza giri di parole. Rapropos è un libro di analisi, narrazioni orali e documenti storici che raggiunge il climax nell’autunno 2005, quando le banlieue francesi prendono fuoco in nome di due adolescenti, Bouna Traoré e Zyed Benna, inseguiti dalla polizia e “morti per niente”. NTM, Diam’s, Akhenaton, Keny Arkana, Abd Al Malik, Booba, La Rumeur, Médine e Orelsan sono solo alcune delle voci più note che raccontano in rima il loro paese. In questo testo le loro storie si mischiano a quelle di figuranti come il “piccolo Napoleone” Nicolas Sarkozy, il calciatore disobbediente Nicolas Anelka, l’attore e regista Mathieu Kassovitz o lo scrittore Jean-Claude Izzo. Lo sguardo acuto e il flirt col pop costituiscono non solo un invito a comprare dischi, accolto puntualmente da migliaia di persone, ma anche una nitida fotografia dell’intera società contemporanea occidentale.”
di Gabriele Marino
XL Repubblica, settembre 2012La CNN trasmette dal ghetto: il rap che racconta la Francia
La Repubblica francese è fondata sul rap. Più che una provocazione è una constatazione. Perché la Francia è la seconda nazione al mondo nell’hip hop, fiorente è l’industria discografica, copiosa la produzione cinematografica (L’odio di Kassowitz). Il rap, nel bene e nel male, accende quotidianamente il dibattito pubblico. I rapper sono dei maître à penser. Per tutti, tranne che per i politici (Sarkozy li definì la feccia) che non “ascoltano” il disagio delle banlieue veicolato dai versi in rima, ma bastonano l’impegno sociale a suon di cause (perse) e repressioni (le rivolte del 2005), con il placet di rapper asserviti (Doc Gynéco) e fascisti (Goldofaf). Fatte le dovute differenze, il rap in Francia è temuto dal potere come la satira in Italia dalla destra. Il giornalista Gricinella analizzala portata sociale dell’hip hop d’Oltralpe, ne sviscera i lati più controversi (il sessismo e l’omofobia). Spiega la forte identificazione con l’Islam. Marca le differenze con la scena italiana, orfana “della capacità di organizzarsi e avere, con più o meno coscienza, una strategia propria”. Non nasconde la crisi del rinnovamento artistico e la mancata trasversalità generazionale: chi ascolta musica rap non ha più di 25 anni.
di Michele Chisena
http://larottaperitaca.wordpress.com, 4 giugno 2012À propos de rap, à propos de France – Intervista a Luca Gricinella
“Ripulirò la banlieue con il karcher… Smettete di chiamare giovani questi rivoltosi, sono racaille. Loro stessi si definiscono così. Sono delle canaglie, della feccia. Ribadisco e firmo.” (Nicholas Sarkozy, 25 ottobre 2005, Argenteuil) “Dove si nasconde questa gentaglia? Per favore ditemi dov’è tutta questa racaille? All’Eliseooo!”. (Keny Arkana, 15 novembre 2007, Parigi) In Francia sta spopolando un collettivo di giovani rapper che si fa chiamare “1995”. Perchè hanno scelto quel nome? Perché il 1995 è un anno speciale per il rap francese: siamo in piena golden age dell’hip hop e in Francia escono album che segneranno la storia di questo genere, come Paris sous les bombes degli NTM e L’Homicide volontaire degli Assassin. Fa inoltre il suo esordio solista Akhenaton degli IAM con Métèque et Mat mentre MC Solaar vince il premio Victoire de la Musique come miglior artista maschile. Iam, NTM, Assasin, MC Solaar: 4 nomi imprescindibili, un’ottima base per iniziare a conoscere l’hip hop fatto in Francia, che per seguito e “incidenza” è secondo solo a quello statunitense. E il 1995 è anche l’anno della distribuzione nelle sale de L’odio di Mathieu Kassovitz, film a suo modo epocale che ha avvicinato molti ragazzi all’hip hop anche in Italia, come recita il tweet che apre questo post e come dimostrano le molte citazioni tratte dalla pellicola che troviamo nei testi di rapper nostrani, sia underground che mainstream, come Deda («…fino a qui, tutto bene, come “L’odio”») Lord Bean («protetto dagli sbirri ma da loro a noi chi ci protegge»), Frankie hi nrg («…e aspetto il peggio, che non sta nella caduta, ma nell’atterraggio, come dice Hubert»), Jake la Furia («…se l’importante è l’atterraggio come Vinz ho l’Opinel dentro i jeans»)… Passa una decade e arriva un altro anno fondamentale per il rap francese perché lo è per la banlieue, e la banlieue, la periferia, è il punto di riferimento del rap francese. Il 27 ottobre del 2005 Bouna Traoré, 15 anni, e Zyed Benna, 17 anni, muiono fulminati nella cabina elettrica in cui si erano introdotti scavalcando una rete metallica per sfuggire dalla polizia che li inseguiva. Morti per niente. La rabbia esplode e il rap è la voce di quell’esplosione ai margini delle metropoli. Luca Gricinella, in arte @blaluca (nome del suo blog e suo nickname su twitter), su questa roba ci ha scritto un saggio: si chiama Rapropos (“a proposito di rap” nel gergo verlan), è edito da Agenzia x e spacca i culi. Il giornalista freelance (di “Alias”, “Rumore e molto altre riviste) con piglio da sociologo (ma non definitelo così che si incazza) appassionato di musica, cinema e sottoculture sceglie il rap per raccontare la società francese, perché «non c’è altro genere che la racconti così schiettamente». Dopo averlo ascoltato presentare il libro al Dans La rue di Bologna, Luca mi ha concesso una intervista via mail. Le sue risposte approfondiscono alcune tematiche del libro e ci rivelano qualche aneddoto del dietro le quinte. I prodi lettori che non amano l’hip hop ma che son arrivati a leggere fin qui, non si perdano le seguenti 16 questioni: parlare di rap, sopratutto in Francia, significa parlare anche di molto altro: movimenti, politica istituzionale, cinema, letteratura, sociologia, editoria, rete…

«Il rap in Francia è “quello” sia per il ragazzino che si iscrive a un atelier di scrittura rap in banlieue, sia per la signora borghese di 70anni che legge Le Monde». Appena arrivato (in ritardo) ad una tua presentazione di Rapropos a Bologna ho sentito pronunciarti questa frase che mi sono subito appuntato sul taccuino e che ben riassume la pervasività del rap francese che descrivi nel tuo saggio. Come è riuscito il rap francese a entrare a 360° nella società e perché invece quello italiano ci è riuscito meno?
È la voce degli esclusi e la voglia di conoscere quelle realtà che l’organizzazione sociale ti porta a ignorare può essere figlia sia della curiosità, sia dell’esigenza di vivere in pace, senza cedere agli allarmismi. Stimolati dalla letteratura – penso soprattutto ai romanzi di Izzo – e dal cinema – non solo L’odio -, i francesi da tanti anni sono stati introdotti al rap che racconta una realtà ai più sconosciuta. Se escludi Mc Solaar dai nomi più noti, si è trattato per lo più di rap esplicito, di denuncia, che dà una versione alternativa di un capitolo della storia francese non proprio secondario, ossia il colonialismo (e i suoi effetti). La signora che legge Le Monde – e che ho incontrato davvero – conosce bene la storia di JoeyStarr, per esempio, e non perché compra i suoi dischi o quelli degli NTM ma grazie agli articoli, ai dibattiti tv ecc… Ma conosce anche la storia di Bouda, breaker trentenne arrivato in Francia quando aveva tre mesi e clandestino a vita a causa della cosiddetta legge “double peine”: usciti di prigione, i ragazzi provenienti dall’immigrazione sono stati costretti per anni a rientrare negli sconosciuti paesi d’origine a causa di questa legge. La storia di Bouda l’ha raccontata Jean-Pierre Thorn in uno dei suoi bei documentari, On n’est pas des marques de vélo (2003). Tra l’altro la legge, poi abolita, è stata discussa di nuovo di recente, a marzo. Insomma, in Francia è difficile ignorare il rap e, sin dai suoi esordi, si tratta di una musica che in minima parte intrattiene… all’inizio ha preso forma dai Public Enemy e dal gangsta rap, poi da qui ha trovato una sua strada mantenendo quell’impronta ma adattandosi alla propria realtà storica e sociale. Il rap italiano non mi sembra che faccia ragionare molto sui nuovi corsi della nostra società o dia una visione alternativa della storia. Non mira insomma a coinvolgere il resto del “mondo”. Per ora.

«Occorre rendere complessa la banlieue» sostiene Abd Al Malik, uno dei rapper che popolano il tuo saggio. Come si fa a restituire la complessità dei sobborghi francesi e blastare i cliché (cit) a riguardo? Come e perché il rap a volte ci riesce meglio di altre forme d’arte? E secondo te nel film L’odio che citi più volte nel testo sottolineandone anche le critiche ricevute e i punti deboli, fino a che punto è restituita questa complessità?
Per arrivare al grande pubblico il cinema spesso si affida ai cliché, soprattutto perché deve concentrare il racconto in un lasso di tempo piuttosto ridotto. È un compromesso che in alcuni casi porta a dei risultati come Quasi amici, la commedia francese che ha spopolato questo inverno, in cui il personaggio di origine africana sembra il selvaggio da educare e il suo “amico” ricco e bianco il mentore indispensabile. Nel caso de L’odio si tratta di un buon compromesso. Ok, il trio protagonista prende vita dall’espressione popolare che, facendo il verso al tricolore della bandiera francese, sintetizza le tre anime principali della Francia multietnica, “Black Blanc Beur”, ma quando Hubert, Vinz e Saïd sbarcano a Parigi città e sembrano degli stranieri nella loro nazione siamo nel campo del verosimile se teniamo presente la zona da cui provengono. Filippo del Lucchese e Miguel Mellino, i due ricercatori che cito in Rapropos, sostengono che «uno dei pochi meriti di un film ampiamente sopravvalutato come L’odio è stato mostrare l’interno di un commissariato di polizia devastato dal fuoco», un aspetto della rivolta spesso tralasciato per dare spazio invece a macchine rovesciate e vetrine infrante. Un altro merito credo sia stato quello di portare alla ribalta mondiale la questione delle cité francesi, di mostrarle dal punto di vista di tre ventenni che strappano anche il sorriso, nonostante dietro l’angolo di ogni scena ci sia un risvolto tragico. Il rap ha l’opportunità di poter descrivere queste aree del paese con più complessità grazie alla corposità dei suoi testi, grazie agli stili differenti degli artisti, alle loro esperienze personali. E la differenza fondamentale è che queste esperienze sono dirette, perché la grande maggioranza dei rapper proviene proprio dalle cité e ci tiene a dare voce alle storie dei propri nonni e genitori e a quelle di amici, fratelli e sorelle che vivono ancora lì, da decenni nelle stesse condizioni. Il rap in Francia rende complessa la banlieue per forza di cose, per natura, ma sta agli ascoltatori e ai critici cogliere le sfumature.

Definisci i riot francesi del 2005 “ben più importanti” di quelli inglesi della scorsa estate. Cosa ha reso particolarmente significativa la rivolta delle banlieue?
Importanti per estensione e durata. Lo dice la storia, non lo sostengo io. Il paragone con i riot inglesi lo ha tirato fuori la stampa francese, quasi per prendersi una rivincita a editoriali e analisi dei giornali inglesi del 2005, quando le banlieue si sono ribellate dopo la morte dei minorenni Bouna e Zyed. La rivolta del 2005, dopo decenni, ha visto le autorità francesi ricorrere al coprifuoco in determinate zone… solo questo provvedimento credo risponda in maniera adeguata alla tua domanda.

In Rapropos dai molto spazio al rapporto tra rap e politica francese, tema che hai ripreso qualche settimana fa anche in un post su Carmilla: gli mc francesi hanno una grossa influenza sull’opinione pubblica tanto da essere temuti o corteggiati dai politici, come testimonia il tentativo di Sarkò di “ingaggiare” Doc Gynéco. A tal proposito mi ha colpito un tuo paragone: i rapper stanno alla Francia come i comici più influenti stanno all’Italia …
Nello specifico mi riferisco a chi fa satira, non ai comici in generale. E in Italia negli ultimi anni chi fa satira ha dovuto far fronte alla censura, alle querele dei politici e, anche grazie a questi tentativi di arginamento, ha conosciuto una grande popolarità e dunque scritto libri, girato film e via di questo passo… I rapper francesi sono finiti al centro di dinamiche simili. La persecuzione dei politici nei confronti di questo o quel rapper si è per lo più rivelata un boomerang: verdetti dei giudici a parte, lo spazio che dà la stampa a una canzone contro le malefatte della polizia in queste periferie, per esempio, aumenta quando un politico punta il dito contro l’autore. Ma l’accanimento dei politici verso il rap che dà voce agli esclusi è cieco, più che mai di fronte alla grande popolarità raggiunta – senza contributi esterni – dalle rime a tempo…

Rimanendo in ambito politico… ti sei fatto un’idea su Hollande? Pensi che possa realmente rappresentare una svolta per la Francia e per le banlieue?
È presto per dire cosa accadrà o cambierà. Il fatto per esempio che a dirigere il ministero di giustizia ci sia Christiane Taubira, ex radicale di sinistra originaria della Guyana (dipartimento francese che confina con Brasile e Suriname) che tra l’altro ha dato il nome a una legge del 2001 che riconosce la tratta dei neri e la schiavitù crimini contro l’umanità, mi sembra un segnale. Kader Arif, ministro delegato per i reduci di guerra presso il ministero della difesa, invece è originario di Algeri e per marcare le differenze con le scelte di Sarkozy di recente ha dichiarato a Le Monde: «Rispetto al 2007, il presidente ha scelto uomini e donne che non sono prodotti di marketing». Gli effetti di queste scelte si vedranno nei prossimi mesi. Perché le banlieue cambino radicalmente condizioni invece ci vorranno anni di attento e articolato lavoro, temo.

Pochi giorni fa il nuovo tecnico della Serbia, Sinisa Mihalovic, ha cacciato dalla nazionale un suo giocatore, Ljaic, per non aver cantato l’inno. Leggendo la notizia ho ripensato subito alle pagine di Rapropos in cui parli di calcio e in particolare di Anelka che non ha mai cantato la Marsigliese e che ha dichiarato in un intervista rilasciata insieme al suo amico rapper Booba che “Quando non si vince in Francia si parla subito di religioni e colori”…
Non conosco la realtà serba ma anch’io ho pensato ad Anelka, tra l’altro musulmano come Ljaic. Il centravanti francese però è stato cacciato per motivi mai chiariti e, cambiato l’allenatore della nazionale di calcio, successivamente è venuto fuori lo scandalo delle “quote etniche”, come a dare ragione alle ipotesi più vicine alle “teorie del complotto”. L’unica certezza, mi sembra, è che il calcio francese non è l’oasi felice della convivenza “Black Blanc Beur”, come sostiene certa stampa. Di fatto restituisce un’immagine del paese un po’ più complessa di quanto si voglia far credere.

In copertina compare il volto di Médine, che personalmente non conoscevo quasi per niente. Come mai questa scelta? Cosa ti colpisce di lui e perché pensi che il suo caso sia particolarmente interessante ed emblematico?
Di Médine mi interessa molto la sua maniera di fare controinformazione sull’islam, anche al di fuori dei suoi brani. La Francia è il paese europeo con la più nutrita comunità musulmana e magari è proprio a partire da lì che si potrebbero ridimensionare i luoghi comuni sull’islam, una religione che nell’occidente politico è discriminata senza mezzi termini sia dai cittadini, sia dai rappresentanti che questi hanno eletto. Eppure nell’Unione Europea si stima che vivano tra i quindici e i venti milioni di musulmani, una “minoranza” che, secondo gli studi, dovrebbe raddoppiare da qui al 2025. In altre parole l’Europa è anche musulmana. Ben vengano allora iniziative come quelle intraprese da Médine. Il suo slogan, “I’m muslim don’t panik”, è efficace e diretto e il titolo di un suo album, “Jihad”, è una bella provocazione perché non lo intende nel senso convenzionale di “guerra santa” ma si rifà all’etimologia del termine, ossia “il senso dello sforzo”, e lo completa con un sottotitolo arguto, “la lotta più grande è contro se stessi”. E sto tralasciando che i suoi testi parlano di tante minoranze disagiate, dunque non sono monotematici. L’islam fa parte della vita di Médine ma non è certo una sua ossessione.

Statisticamente il numero di rapper femminili non è altissimo nemmeno in Francia (smentiscimi pure), ma personalmente i due “nomi” hip hop francesi che conosco meglio sono femminili: Keny Arkana e Diam’s, la prima più estrema, la seconda più pop seppure entrambe incazzate. Ce le descrivi? Tu chi preferisci? Io adoro Keny e penso che il suo caso sia emblematico di come un rap di “movimento”, strettamente legato a lotte sociali, possa riuscire a finire in classifica.
Anche in Francia le donne dedite al rap sono poche rispetto agli uomini, vero. Ma due di loro, proprio quelle che citi, figurano tra i rappresentanti più popolari e validi del rap. Diam’s credo sia nota quanto Booba e Rohff, vende centinaia di migliaia di copie e sì, il suo rap suona molto pop. Ciò non le impedisce di accanirsi contro Sarkozy (che ha definito anche fascista) o di essere “conscious”. Anche se proprio Keny Arkana sembra aver deplorato lo scarso impegno di Diam’s a sostegno di cause “giuste” (così sostiene Libération), quanto mai efficace, si sottolineava in quell’articolo, quando si è così popolari. Keny Arkana è vicina ai movimenti e si può definire militante ma – presunta morale sui colleghi a parte – spesso si è dimostrata libera dall’ideologia e attenta osservatrice del percorso del rap. Per esempio ho trovato interessante il suo spunto sull’ascesa dei Sexion d’Assaut, mega crew venuta alla ribalta anche per i suoi versi politicamente scorretti: dopo anni di dominio di rapper solisti, anche “individualisti” a giudizio di Arkana, per la marsigliese di origine argentina è solo positivo che il rap riguadagni la sua dimensione collettiva. Il fatto che per fare una simile osservazione, secondo me acuta, riesca a prescindere dal messaggio che veicola il rap, trovo dica tanto sulla sua libertà di pensiero.

Domanda secca. Non ti chiederò né i 3 rapper più importanti di Francia secondo né 3 dischi inderogabili: sparami solo 3 singole canzoni da far ascoltare subito ai nostri bramosi lettori/ascoltatori.
1) La Rumeur – La meilleure des polices, 2) Youssoupha – Espérance De Vie e 3) Medine – Don’t Panik

Parliamo un attimo di come il rap francese viene ascoltato e recepito in Italia. La cosa che ho notato è che spesso si tende ad amarlo od odiarlo. Ti faccio un esempio tra i tanti citando nomi illustri: so che Danno del Colle proprio non piace mentre Leleprox lo spinge tantissimo. Al di là dei singoli rapper e dei gusti personali penso si tratti proprio di questioni di come suona all’orecchio di ciascuno la singola lingua prestata al rap. Che dici? Per te il francese si presta particolarmente?
Affermare “non mi piace il rap francese” mi ricorda tanto chi dice “non mi piace il cinema francese” (aggiungendo magari frasi del tipo “non capisco quella roba da intellettuali”). Ok, ogni paese dà un’impronta alla propria produzione artistica: ma cosa significa giudicarla in blocco? È possibile? Forse questa chiusura dipende dalle antipatie nutrite dall’italiano medio nei confronti della Francia? In questo caso la capirei ancora meno. Addirittura quando Sarkozy e Merkel hanno deriso in pubblico Berlusconi – e lasciamo perdere la provenienza di quei sorrisi ironici -, a sinistra c’è chi si è risentito, tanto che sui social network si leggevano frasi antifrancesi. Un po’ una reazione da provincia offesa. Ma tornando alla questione rap: il francese è una lingua latina, parente della nostra, dunque c’è anche la possibilità di arrivare al senso di certe parole senza averlo studiato. Aggiungi a questo che la Francia è qui, di fianco a noi, per giunta da qualche anno raggiungibile a bassi costi: mi sembra una buona opportunità per gli appassionati di rap, magari proprio per chi vuole farsi un’idea sul grande successo che le rime a tempo hanno raggiunto oltralpe.

Oltre la Francia, conosci molto bene Buenos Aires. Com’è la scena rap argentina? Tornando all’Europa, pensi ci siano rapper talentuosi in altri paesi come Spagna e Inghilterra? Che ne pensi dei vari Violadores del Verso, La Mala Rodriguez, Dizzee Rascal, The Streets…?
Ho viaggiato qualche volta in Argentina, sì, dove il rap è ancora molto di nicchia. La scena si sta formando ma sarà dura affermarsi da quelle parti: lì il “rock nacional” e i ritmi latini spadroneggiano. Il rap è costretto alla “mezcla” per sopravvivere… Della scena europea mi piace molto il grime, Dizzee Rascal a parte, a Londra e dintorni è pieno di rapper che hanno talento.

“Il rap comunque più che un genere musicale è un movimento… va oltre la musica, è uno stato d’animo. Addosso non ho nulla che risponde al cliché hip hop ma mi sento parte del movimento. Proprio ora stiamo festeggiando trent’anni di rap in Francia. Il rap non è una moda. Tempo fa tutti parlavano della tecktonik di qua, della tecktonik di là. Ma quanto è durata questa tecktonik? Sei mesi. Il rap c’è da trent’anni e tra trent’anni ci sarà sempre”. Hai scelto queste parole pronunciate dal giornalista Gregory Curot come chiosa del tuo saggio. Presumo quindi che sei d’accordo con lui: il rap non morirà a differenza di altri generi. Quale pensi sia il perché della sua longevità?
Il rap al momento è quanto mai vivo, questo è un dato di fatto. Che i ragazzini di mezzo mondo ci si dedichino mi sembra una buona garanzia rispetto alla longevità. Il motivo? Mi viene da dire che è facile fare rap, nel senso che rimare su un ritmo è una cosa accessibile alla stragrande maggioranza, anche se non si hanno mezzi economici. Poi farlo bene è un altro discorso, ma l’immediatezza è un tratto fondante del rap, nel bene e nel male. Non credo però si tratti del solo genere che resisterà nel tempo. Tra quelli esplosi negli ultimi trent’anni di certo è quello più vivo e in vista.

Il tuo saggio si focalizza sul rap, mi viene da chiederti se segui con interesse la situazione francese delle altre discipline dell’hip hop. Ad esempio anche in quanto al writing la Francia se la regna rispetto agli altri grandi paesi europei?
Anche se quando passo in Francia il writing, o la street art che dir si voglia, spesso cattura la mia attenzione, continuo a seguire il rap e la sua “diaspora” in altre forme d’arte e altri mezzi di espressione e comunicazione. Ormai ogni disciplina hip hop, se ci riferiamo alle quattro originarie, merita un’attenzione tutta sua per essere discussa con un minimo di cognizione. Dunque al momento preferisco continuare a concentrarmi sul rap che è già difficile da seguire a modo, vista la miriade di produzioni in uscita ogni settimana.

Rapropos è uscito per Agenzia X, una casa editrice molto vicina ai movimenti e interessata alle controculture (in qualche modo ci ho “collaborato” anch’io visto che hanno inserito un mio storify nell’istant book Nervi saldi – Cronache dalla Val Susa). Come ti sei trovato a lavorare con loro? Un paio di mesi fa ho ascoltato Philopat presentare il suo Rumble bee e tutto il progetto di questo “laboratorio editoriale” al Csa Sisma di Macerata : dalla sue parole si evinceva il tentativo di dedicare cura artigianale al “fare libri”. Hai avvertito anche tu questo tipo di approccio? Parlaci un po’ delle singole figure editoriali che hanno collaborato alla realizzazione di Rapropos e l’importanza che hanno avuto per far sì che questo libro funzionasse.
Agenzia X nel mio caso non è stato solo un editore, considerando che sono arrivato da loro avendo scritto poco… Tra tutti i contributi, cito con piacere quello della prima persona che ha letto interamente il mio saggio, Alberto Dubito, scomparso di recente. Non so quante altre realtà editoriali siano capaci di far incontrare un giornalista vicino ai quaranta che segue il rap da più di vent’anni e uno studente ventenne che scrive e rappa con un talento incredibile, facendo in modo che collaborino senza alcuna controindicazione, anzi con una buona dose di complicità.

Ogni tanto su twitter mi imbatto un link di una tua presentazione: stai girando tantissimo e negli ambienti più trasversali, dai centri sociali alle librerie fino alle università. Come sta andando questo tour? Quale tipo di ambiente stai trovando più stimolante in questa fase di promozione?
Di certo la lezione sul rap nel corso di francese della facoltà di lingue di Urbino è stata l’esperienza più gratificante. Forse proprio perché non ho mai frequentato l’università, a differenza dei centri sociali o dei circoli Arci (altra realtà che mi sta invitando a più riprese). Il tour procede bene, le discussioni sono partecipate. La sorte di una presentazione poi dipende dal moderatore e dalla composizione della serata. Ma non essendo certo un autore noto, non posso che ringraziare sempre e comunque chi mi invita per parlare di Rapropos. E grazie anche a te di questo spazio!

Ti ho conosciuto grazie al tuo blog, Blaluca. Come è nato e come si sta sviluppando questo progetto? E più in generale come giudichi la qualità dei vari blog e siti che parlano di hip hop in Francia e in Italia, sempre più importanti dopo la chiusura di tante riviste specializzate.
Hip hop o non hip hop, il paradosso delle webzine musicali è che in media pubblicano una recensione di un disco due mesi dopo che ne hanno parlato le riviste mensili. A monte credo ci sia lo stesso problema che vivo io con Blaluca: la difficoltà di trovare il tempo necessario per dedicarsi a un “progetto” extra-lavorativo. Però se pensiamo alla retorica sul web che anticipa la carta stampata, nel caso della critica musicale si può dire che non funziona proprio così… Per il resto, tra i siti francesi segnalo “Sur un son rap” di Karim Hammou che, dopo una tesi di sociologia del 2009, ha continuato a occuparsi di rap (e non solo rap): l’autore non si preoccupa solo di stare sulla notizia ma approfondisce anche aspetti storici. E mi sembra ci riesca bene. Questo approccio mi interessa più dell’ansia da opinione personale sui fatti del momento.
di Francesco Spè
Blow up, giugno 2012Luca Gricinella. Rapropos
“Che si parli di politica, giustizia, minoranze sociali… su queste pagine lo si fa sempre a proposito di rap”, ricorda con chiarezza l’autore nelle note introduttive (il Rapropos del titolo allude esattamente a questo, vezzosa contorsione linguistica cara a molti parigini delle giovani generazioni). Quello che potrebbe dunque apparire come un limite – il rifiuto o l’incapacità di coinvolgere sguardi di esterni all’interno di domini troppo spesso “gruppettari”, rendere stimolante il testo anche ai non adepti al sacro verbo hip hop – risulta invece, già dalla intro, una precisa e insindacabile scelta di campo: “Non c’è altro genere musicale che racconti così schiettamente la società francese come il rap… analizzare il rap francese significa riflettere sulla società contemporanea occidentale”. Su queste basi si dipana una scrupolosa ricerca sul campo che, pur includendo i gloriosi prime-mover del rap francese (da NTM, 1990 circa, alla soundtrack de L’odio di Kassovitz, 1995), muove il suo raggio d’azione sostanzialmente nel nuovo secolo, con assoluto baricentro nella celeberrima rivolta avvenuta nel 2005. La parola chiave è dunque proprio banlieue, categoria dello spirito prima ancora che periferia transglobale, topos ricorrente nel dibattito francese capace di spaccare letteralmente in due l’opinione pubblica, e marcare profondamente il profilo tanto della sua classe dirigente quanto dei profeti del ghetto. E così, nell’eterno gioco dei ruoli, critica e pubblico si dividono attorno a figure simboliche come i radicali La Rumeur, oppure al più mite, meditativo e integrazionista Abd Al Malik, figlio di immigrati africani, reo di gridare con orgoglio intellettuale “Vive la France!”. Perché il sottotesto vero sembra essere proprio quello dell’identità nazionale, tabù ancora insondabile per tanti cugini d’oltralpe, e invece spesso e volentieri preso d’assalto dai rapper banliesarde. Tante d’altronde le sfaccettature sul tema: identità condivisa, perduta, fittizzia, multiculturale, neocoloniale. E dopo anni di critiche al vetriolo da parte degli chansonnier più intransigenti, appare del tutto legittima la domanda/provocazione della scrittrice Rokhaya Diallo: “Bisogna essere bianchi per criticare la nazione?”. Sulla medesima falsariga il rapper Monsieur R., che di fronte alle sdegnate polemiche del solito partito sarkozysta, si appella alla libertà d’espressione citando alcuni durissimi versi dell’amato Brassens. Ma i paradossi Francia/rap sembrano infiniti, tra mille cause civili che probabilmente raggiungono il culmine ancora grazie a Sarkò, che dopo essersi inimicato brutalmente la “feccia” delle banlieue, decide di cooptare un rapper disinvolto e cinico per usarlo in terra nemica alla stregua di uno schiavo domestico. Scenari solo apparentemente comici che svelano invece il tratto saliente del bel libro di Gricinella: il rap in Francia è faccenda maledettamente seria, lontana anni luce dall’eterna irrisolutezza che attanaglia la nostra scena. Controversa forma d’espressione capace di dare realmente voce a chi non l’ha, anche nella maniera più sguaiata e disturbante. Ma tutta la società civile ha imparato a farci i conti.
di Mauro Zanda
http://radiogold.it, 12 maggio 2012Rapropos - Il rap racconta la Francia
La Francia è il paese europeo in cui il rap come espressione musicale ha meglio attecchito e piantato le sue radici. Dati di vendita altissimi (è il secondo mercato rap al mondo), accoppiati ad una radicalità elevata dei testi ed una qualità media della proposta che sta ampiamente alla pari di quella dei più famosi colleghi americani, ne fanno un vero e proprio fenomeno non solo musicale, ma anche socio culturale. Perché la Francia si è dimostrata più ricettiva, più pronta a recepire questo nuovo linguaggio musicale nato nelle periferie delle metropoli americane? Perché i rappers francesi, oltre ad essere nettamente più bravi, risultano così credibili, mentre quelli italiani, salvo pochi casi, risultano sovente delle banali scimmiottature dei modelli americani? Com’è che in due paesi confinanti come l’Italia e la Francia, così simili per cultura, entrambi con una lingua di derivazione latina, il rap ha avuto due evoluzioni così differenti? Che peso ha avuto in questa diversità il forte movimento migratorio che ha interessato la Francia, anche per tramite delle ex colonie, ben prima e più pesantemente dell’Italia? Come può aver influito la qualità della vita nelle banlieue francesi, luogo di provenienza della maggior parte dei rappers d’oltralpe? A queste domande cerca di rispondere Luca Gricinella, giornalista musicale esperto di rap, che ha studiato questo fenomeno, indagandone la nascita e lo sviluppo attraverso un’attenta analisi delle sue fasi evolutive, evidenziandone i lati positivi, ma senza dimenticare quelli negativi, approfondendo lo studio con interviste a esponenti significativi della cultura rap e non solo, senza trascurare le tematiche più discusse, quali l’Islam e la discriminazione sessuale Questo libro però non racconta solo un fenomeno musicale, ma attraverso esso anche il paese (illuminante al riguardo il capitolo “A proposito di rap e Francia”), perché il rap in Francia è davvero entrato nella cultura, nel cinema, nella letteratura, è diventato oggetto dei grandi media, fino a diventare parte del dibattito politico. Un fenomeno che vale la pena indagare.
di gz
http://www.rockerilla.com, 12 maggio 2012Rapropos
Quando l’esperienza incontra il suono della vita di strada, ecco gli occhi della verità nutrirsi della speranza, di un cambiamento, anche uno solo. Luca è un amico di tutti coloro che amano la musica, è anche giornalista freelance, scrive di hip hop e ne analizza la storiografia sociale. Ha vissuto a Parigi e da qui l’esperienza. Quale? “Quando l’ho trovato, il mio timbro vocale rappresentava la voce della collera, traduceva una certa tensione. E anche oggi, dopo anni, mi chiedo come si faccia a non essere in collera” D’ de Kabal. Luca assaggia le viscere del rap in Francia e gli si apre un mondo. Non è il “vostro genere”? Lo sarà dopo aver letto Rapropos, il rap racconta la Francia, il rap dei manifesti, delle immagini, degli autori e dei personaggi famosi. Analisi, narrazioni orali e documenti storici mentre là fuori nelle banlieue qualcosa brucia e non si spegnerà così facilmente.
di Matteo Chamey
www.myhiphop.it, 9 maggio 2012Rapropos: il rap e la società francesi raccontati da Luca Gricinella
Non è un caso che questa intervista nasca qualche giorno dopo la proclamazione del nuovo premier francese Hollande. Cosa c’entra col rap, vi chiederete. Luca Gricinella è un giornalista free lance già redattore per Alias, Il Manifesto, Rumore, Superfly e altri, autore tra l’altro di un bellissimo articolo sull’incontro tra rap e Islam. Ebbene, attraverso le pagine di Rapropos (a proposito di rap nello slang verlan) Gricinella, italianissimo, ci invita nel macrocosmo hip hop francese e ci spiega come questo abbia la peculiarità di influenzare, più di ogni altro genere e più di ogni altra parte del mondo, la sfera politica, sociale e culturale del Paese. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di parlare con lui della bagarre Hollande-Sarkozy (e di come i rapper siano entrati nella campagna elettorale), degli spunti sociologici che può offrire il movimento hip hop, de L’odio di Kassovitz e di cosa può differenziare culturalmente il rap francese da quello italiano e quello americano. Centosettanta pagine, edite da Agenzia X, di notevole fattura. Lettura consigliatissima da myHipHop.it.

Salve Luca, benvenuto sulle nostre pagine. Cominciamo dalla strettissima attualità: Hollande è il nuovo premier francese, dopo aver battuto al secondo turno un Sarkozy in rimonta. Seppure nella famigerata banlieue di Clichy-sous-Bois (il baricentro della rivolta partita nei quartieri dopo l’uccisione di due ragazzi nel 2005) si sia avvertito una rinnovata fiducia nella politica, si può dire che – stando ai dati – la vittoria della sinistra non sia la vittoria dei quartieri popolari, astenuti nella maggior parte dei casi. Come mai?
I quartieri sensibili in Francia sembrano appartenere a un’altra nazione: il paesaggio urbanistico e quello umano differiscono molto da quelli delle città confinanti o distanti pochi km da queste zone. Si compie un breve tragitto in metropolitana o con i treni delle ferrovie suburbane e la sensazione è quella di aver sconfinato. Questo si può considerare un dato di fatto e non è conseguenza di una scelta degli abitanti dei quartieri popolari. Se poi capita che si affermi un politico impegnato a non far sentire francesi i suoi connazionali di origine africana, specie gli oppositori, i disubbidienti o i meno abbienti, la reazione può anche determinare un inasprimento del conflitto e un’ulteriore chiusura, aumentando di fatto l’esclusione di un’intera fascia di popolazione dalla vita di un paese. Di recente nei reportage sull’astensionismo nelle banlieue si è sentito anche dire che è dal 1981, dall’anno in cui è stato eletto il primo presidente di sinistra, Mitterand, che i “banlieusard” aspettano di vedere il cambiamento. E a dirlo era un ventenne. La disillusione è radicata. Che poi in queste elezioni abbia fatto la sua parte la tentazione di sbarazzarsi del politico che si è proposto come nemico pubblico numero uno delle banlieue, è probabile. Essersi sbarazzati di Sarkozy è stato il primo, necessario passo per ricominciare a sperare.

Rapropos è una pubblicazione che illumina sulla peculiarità del rap francese, che più di ogni altro genere riesce a influenzare la politica e le alte cariche dello Stato e di rimando condiziona l’opinione pubblica. Dunque non è un caso che Hollande abbia utilizzato come sottofondo alla sua campagna politica “Niggas in Paris” di Jay-Z e Kanye West. Che ruolo ha avuto il rap in Francia in questi ultimi mesi?
Rapper che hanno invitato al voto le banlieue (vedi Axiom), altri che hanno fatto uscire un nuovo album in cui lanciano messaggi non certo accomodanti e nelle interviste hanno invitato a non condannare gli astensionisti (vedi La Rumeur), altri ancora che hanno preso le distanze dai politici perché scottati da precedenti esperienze (vedi Disiz) e via così. Molti non si sono espressi e nel complesso c’è stata meno partecipazione rispetto al 2007, quando lo choc per l’approdo di Le Pen al ballottaggio del 2002 era ancora caldo. In ogni caso la presenza del rap anche questa volta è stata visibile. Hollande ha addirittura assunto Bruno Laforestrie, fondatore della radio hip hop parigina Générations e ideatore appunto del video girato in banlieue con Nigga in Paris come colonna sonora: questo già la dice lunga sul valore acquisito negli anni dalla cultura hip hop, non solo nelle banlieue ma in tutta la Francia. Per finire, Mélenchon, il candidato del Front De Gauche, al primo turno votato da circa l’11% degli aventi diritto (anche se i sondaggi lo davano intorno al 15%), ha citato Gil Scott-Heron. Non credo sia possibile immaginare un politico italiano, al di fuori di un racconto di finzione, fare scelte simili, ma la Francia è il secondo mercato rap al mondo dopo gli Usa, dunque oltralpe si può (e forse si deve) fare.

Tralasciando per un momento la Francia, ti chiederei perché il tuo interesse da studioso di sociologia si è soffermato su un genere come l’hip hop: che spunti sociali ha, insomma, rispetto ad altre culture.
No, aspetta, non sono un sociologo. Semplicemente l’aspetto sociologico della musica mi interessa molto di più di quello tecnico. L’hip hop nasce per le strade del Bronx, in determinate condizioni storiche e sociali. Si potrebbe dire lo stesso del dubstep a Croydon, per esempio. E così via per altre sottoculture o generi musicali. Artefici volenti o nolenti, ci sono delle condizioni che determinano lo sviluppo di questi fenomeni musicali in quei luoghi, in quegli ambienti e in quelle epoche. A prendere in considerazione solo il ramo musicale dell’hip hop si trovano le sue principali radici in jazz, soul e funk. Ma queste sono solo le principali e solo della parte musicale. Insomma l’hip hop è una cultura-contenitore emblematica, un frutto della società contemporanea che, specie grazie alla musica, è arrivato in alcuni paesi ancora prima che l’odierna composizione sociale si affermasse. È nato oltre trent’anni fa e continua a essere la colonna sonora più credibile del presente.

Perché un giornalista italiano pubblica uno studio sul rap francese? Al quesito hai già dato risposte più che esaurienti tra le righe del libro; ma c’è qualche aspetto del movimento italiano di questi anni che meriterebbe una maggiore attenzione sociologica?
Di solito uno sguardo esterno dovrebbe dare meno aspetti per scontati, prima di tutto perché meno coinvolto in certe dinamiche. La Francia inoltre è qui di fianco a noi e gli scambi con l’Italia, soprattutto culturali, sono continui. Nello specifico si tratta di rap in una lingua parente della nostra, venuto alla ribalta nei primi anni ’90, quando anche da queste parti i mass media si interessavano al rap in italiano nonostante potesse dar fastidio alla borghesia benpensante. Oltralpe è stato un crescendo, qui l’euforia di un vero e proprio movimento è venuta meno nel giro di circa quattro o cinque anni. Ecco un aspetto del rap italiano che sarebbe interessante approfondire: l’affermazione della versione giovanilistica a scapito di quella più impegnata e di denuncia. Servirebbe un’analisi a tutto tondo che parta dalla scena, approfondisca le dinamiche del nostro mercato musicale e il livello delle relative strutture, senza ignorare le condizioni sociali e politiche degli anni in questione. Un lavoro da fare in team o, come si sarebbe detto nei primi anni ’90, collettivo.

Molti dei rapper che citi lungo Rapropos utilizzano liriche molto forti e dirette. Se da un lato questo ha causato alcuni provvedimenti giudiziari ai danni degli artisti, dall’altro ha una cassa di risonanza molto ampia. Come viene recepita tale crudezza dai fruitori di rap, dunque dalla maggioranza dei cittadini francesi?
Be’, per i francesi il rap è forte e diretto. Anzi, di più, è esplicito e sboccato, radicale e scomodo, fa controinformazione, fornisce punti di vista inediti per la massa, anima il dibattito pubblico, partecipa da tempo alla vita culturale del paese. A volte dà molto fastidio proprio perché alcuni rappresentanti dello stato puntano il dito su una rima specifica, tutta la stampa allora ne parla e di conseguenza una parte della popolazione, quella che ha meno a che fare con questo linguaggio – presumibilmente la Francia profonda – non può che indignarsi. Un’azione fomentatrice che chiaramente non vuole spiegare cos’è il rap, dove nasce e da dove arriva, ma indirettamente crea i presupposti perché si parli anche di queste origini e di questi tratti… è raro ma può accadere, ci sono insomma giornalisti che sentono di dover approfondire per riuscire a spiegare il fenomeno al pubblico. E c’è un pubblico di insospettabili che recepisce.

L’hip hop francese, ovviamente, non si esaurisce nella sua sfaccettatura più impegnata, cioè quella più pregna di significato, ma ha anche variabili soulful, più hardcore ma meno impegnate e anche mainstream. Ma quale è quella più caratterizzante, più apprezzata?
“Nessuno guarisce dalla proprio infanzia” rappa Oxmo Puccino. Il 90% del rap francese arriva dalla banlieue, dove le condizioni di vita sono quelle che si vedono in film come L’odio o La schivata o si leggono in romanzi come Casino totale e Già noto alle forze di polizia. Non solo insomma quelle che si sentono descrivere nel rap. E gli abitanti di quelle zone sin da bambini non hanno bisogno dell’arte per rendersi conto della situazione. Il percorso che il rapper intraprende crescendo, lo stile in cui si riconosce, condiziona il modo di raccontare ma non cancella queste origini. Così nel rap francese i muscoli incontrano la denuncia mentre coscienza e impegno nascono anche da rabbia e voglia di rivalsa. Ma questi sono solo alcuni dei tratti che si possono individuare. Ce ne sono tanti altri. L’aspetto comune è appunto l’impronta “banlieusard”.

Per buona parte degli appassionati italiani, se dici rap francese dici L’odio, il film di Mathieu Kassovitz del 1995. Alcuni studiosi postcoloniali che citi in Rapopros lo definiscono un film sopravvalutato: tu sei d’accordo con loro, lo consideri un caposaldo, o preferisci una via di mezzo?
L’odio è servito a portare alla ribalta internazionale la questione delle banlieue. In patria è comprensibile che sia stato anche criticato perché chi era già addentro quella realtà non poteva digerire facilmente certi cliché narrativi (vedi per esempio il trio protagonista, un “black”, un “blanc” e un “beur”). Per quanto mi riguarda resta un film fondamentale, in cui si possono trovare anche alcune figure controverse ma significative a livello narrativo, come il poliziotto “buono” di origine maghrebina che tenta di mediare tra i ragazzi e i suoi colleghi “cattivi”: il suo fallimento fa venire voglia di capire quelle dinamiche conflittuali e dunque spinge ad approfondire il ‘fuori campo’ del film. Qui da noi, sui ventenni di allora, specie tra i patiti di hip hop, L’odio ha avuto un impatto incredibile: lo confermano tutte le rime italiane che lo citano… sono una miriade, e provengono anche da mc di generazioni successive.

Dell’unicità del rap francese pare se ne siano accorti anche oltreoceano. Le collaborazioni con artisti americani sono diverse: credi che negli States abbiano capito la potenza sociale dei rapper francesi?
Non credo che gli americani in ambito rap abbiano bisogno di sfruttare talenti stranieri. In molti casi, come sai, l’hip hop in quanto movimento crea facilmente connessioni internazionali. Nonostante la Francia abbia la nomea di paese europeo più antistatunitense, l’ambiente hip hop transalpino ha un rispetto incredibile per gli Usa, da cui ne è davvero affascinato. Se Booba è andato a vivere a Miami anche perché, ha dichiarato, lì la polizia non lo ferma a causa del suo aspetto, Akhenaton nell’autobiografia parla dei suoi viaggi oltreoceano come momenti formativi fondamentali. E queste sono solo due delle voci più note in merito. Ok, la presenza di MC Solaar nel primo volume di Jazzmatazz dice anche che negli Usa c’è un occhio attento al rap francese da tempi non sospetti. Di certo le strutture americane hanno preso atto delle potenzialità commerciali che il rap ha in Francia. Di certo tra colleghi rapper ci può essere stima e rispetto nonostante le grandi distanze.

Religione, omosessualità, sessismo, identità nazionale o calcio: mainstream è avere la capacità di influenzare tutti questi ambiti culturali e sociali, oppure raggiungere un numero di vendite elevato?
In Francia sono due aspetti che vanno spesso a braccetto. Negli Usa, per esempio, è più facile che uno escluda l’altro. Noi invece ci teniamo Jovanotti perché adoriamo chi si redime, specie se è stato formato da Cecchetto o Boncompagni. Vabbè, battute a parte, non saprei dirti cosa è davvero mainstream. Posso dirti che in Francia il rap è davvero popolare, tanto che un pensionato sa chi sono Akhenaton, Joeystarr, Diam’s, Booba e Rohff. Basta guardare la tv e questi artisti diventano familiari. Nel libro azzardo il paragone con chi fa satira in Italia, anche per le querele dei politici e i tentativi di censura di cui sono oggetto. Come dire: noi ci ridiamo sopra, oltralpe non proprio…
di Nicola Pirozzi
www.sherwood.it, 8 maggio 2012Rapropos – Luca Gricinella
Parlare di rap, o anche, più in generale, di cultura hip hop in Italia è sempre più difficile. La profezia “prima o poi Castagna mi parruccherà Diana Ross”, che Neffa cantava nel lontano 1998, sembra essersi concretizzata e fare da guida alla maggior parte delle nuove produzioni.Ecco perché Rapropos di Luca Gricinella appena pubblicato da quelli di Agenzia X, sembra descriverci un ambiente che a stento, con le nostre orecchie, saremmo in grado di riconoscere.
In Francia infatti il rap, nella maggior parte dei casi, ha mantenuto salde le sue radici. Per riprendere le parole di Grégory Curot, ex-caporedattore di “Rap Mag”, “il rap più che un genere musicale è un movimento”. Questa caratteristica gli ha permesso di attraversare, da capo a piedi, a più riprese e in momenti differenti, la società francese portando alla ribalta voci autorevoli del calibro di: NTM, IAM, Akhenaton, Keny Arkana, D’de Kabal. L’intento del saggio, però, non è portarci verso quella tendenza che sembra ormai dilagare in Italia: l’esterofilia. Anche il rap d’Oltralpe ha le sue zone d’ombra. Ma al contrario del nostro, anche nei suoi momenti più bui, proprio grazie anche ai paradossi creati, è sempre riuscito a fotografare ciò che ça vient dans la rue.
Rapropos risulta alla fine essere non solo la descrizione di un genere o fenomeno musicale. Al contrario, grazie all’attenta inquadratura sociologica dell’autore, ci regala un’istantanea di quello che l’attuale società francese rap-presenta.
di Luigi Emilio Pischedda
www.rollingstonemagazine.it, 2 maggio 2012Elezioni francesi... okkio al rap!
Un genere musicale e le banlieue dentro la complessa semantica culturale e politica francese. Ne parla Luca GricinellaAvete notato quanto spazio nei media si dà in questi giorni alle elezioni francesi? Io per esempio non ho ben capito se alcuni nostri intellettuali non siano caduti nella tentazione, pure se lo fanno capire fra le righe, di tifare Le Pen in quanto politicamente “scorretta”. Vabbè, da noi l’ambiguità è sempre ricompensata, ma andiamo per passi che già sono fuori tema. Quando con una e-mail mi avvisano che un postino sta per recapitarmi un libro sul rap francese dico, bene, si sono bevuti il cervello. Cosa c’è di meglio di dare in mano un testo del genere a uno che non conosce una virgola nemmeno del rap italiano? Masochismo o Campari, chissà. Che tipo di associazioni posso fare, a parte quelle riguardanti quei quattro sballati che ancora credo vivano a Parigi? Eureka (sarebbe Cazzo)! L’odio di Kassovitz e una scena che mi accompagnerà fino alla tomba, quando dalla propria camera, un dj (dico un dj ma parliamo di Cut Killer) con le casse girate verso i palazzotti della banlieue, mixa No, je ne regrette rien, cantata dalla Piaf, e Assassin de la police degli NTM e quel volo meccanico sopra i tetti, le piazze e gli alberacci, mediante il quale viene mostrato per pochi secondi il fragile scheletro della periferia. Perché dopo quel film un po’ tutti ci siamo sentiti Hubert, Saïd o Vinz, a seconda chi di noi abbia scelto se uccidere oppure no.
All’apertura del plico scopro che l’autore di Rapropos (Agenzia X, uscito il 14 marzo) è Luca Gricinella, collaboratore di “Alias de il manifesto” e visto che il sottoscritto stima il lavoro di Gricinella (come già gli riferii in tempi non sospetti per un suo bellissimo articolo sul rapporto fra Islam e rap, materia trattata anche nel libro), prima di affrontare la prima pagina lo contatto per chiedergli una buona colonna sonora per la lettura. I nomi Abd Al Malik e Medine mi dicono meno di quello di un campione di hockey su prato. Fa niente. Per ora, comunque, questi riferimenti saranno le vie principali, il cardo e il decumano romano per chi come me è intenzionato ad attraversare l’accampamento cementificato di una periferia parigina per capirne la musica e, con Gricinella, quello che sta succedendo Oltralpe sotto elezioni. Oh, sia chiaro, dimenticatevi le cartoline, Montmartre o il Marais, quelli ormai sono quartieri inattendibili, spogliati, abominevoli perché “carini”, senza spigoli né un granello di tangibilità, retti da una scenografia da rincoglioniti quasi peggiore di quella degli ultimi film di Woody Allen. Quasi, sottolineo.
Rapropos è un libro certo sulla musica ma di sponda è la difficile ricostruzione di un quadro che, come le vetrine che scoppiano sotto i colpi dei casseurs, dall’Italia vediamo in frantumi (perché vediamo solo quello), cioè della resistenza a ogni costo e su quanto la cultura, qualsiasi essa sia, possa significare per i “quartieri sensibili”. Come dice il rapper D’ de Kabal nel libro di Gricinella: “la rabbia (o la collera) sorge prima dell’indignazione ed è un sentimento meno moralista, più laico, che in principio lascia più libertà di movimento all’intelletto, senza ingabbiarlo in schemi precostituiti”. Infatti con Rapropos si entra in contatto con una limpida e avulsa sorgente creativa, le cui molecole normalmente sono considerate scorie (pietre tirate, polizia assassina, eroina, graffiti, etc.) e che per questo, a fatica, la si può inquadrare solo come un fenomeno frutto dell’emarginazione. Anzi, il disagio risulta il collante di altri elementi come libertà, poesia, sacrificio e impegno che, dall’esterno, non ti aspetti di trovare in quello che viene definito “ghetto”. Questo avviene, se ben ho capito, quando la musica che si suona e canta è la naturale espressione di quanto ti vive a fianco. E nulla è trasfigurato. Lo stesso discorso si potrebbe fare con la musica popolare, sempre che non se l’accaparri una major, ovvio. Ma pagina dopo pagina viene anche da fare paragoni e meditare su come, da noi, un volume così alto, probabilmente, non sarebbe tollerato. Parliamone.Senti Luca, non c’entra niente ma... secondo te perché ti domandano sempre come mai hai scelto di trattare questo argomento? Te lo chiedo perché non sopporto questo incipit...
Il rap francese in Italia non ha mercato. Quanti rapper parigini e marsigliesi si sono visti dal vivo da queste parti? E quanti loro dischi distribuiti nei nostri negozi? Dunque il sottotesto di quella domanda credo sia: chi te lo ha fatto fare? La risposta letterale è Agenzia X, una casa editrice che bada alla promozione culturale dando spesso spazio ad approfondimenti di movimenti e fenomeni sotterranei. Il rap in Francia è assolutamente popolare ma in Italia, nonostante la vicinanza e la parentela linguistica, per lo più lo ignoriamo. Curioso, no? Ora però sto rispondendo alla domanda che non sopporti.Ti avviso, se continui a farti domande da solo io vado via! Comunque, quali sono i media, i canali principali, con cui ha mosso i primi passi il rap francese? Com’è che si è divulgato così tanto (si consideri che quello francese è il secondo mercato mondiale dell’hip hop dopo gli USA)?
Nel 1996, quando ho vissuto a Parigi, i club non avevano in programmazione concerti di rapper locali. E ancora oggi che il rap è ospitato in palazzetti dello sport e stadi, molti si lamentano, a ragione, che in giro per la città si vedano pochissimi poster annuncianti questi eventi. Di certo le radio hanno avuto un ruolo fondamentale: una su tutte, la parigina Radio Nova. Penso a Deenastyle, il programma di fine anni ’80 di un dj storico, Dee Nasty, autore del primo album hip hop prodotto in Francia (Paname City Rappin’), grandissimo collezionista di vinili e animatore dei bloc party che si svolgevano alle porte di Parigi, in aree dismesse. Negli studi di Radio Nova, grazie a Dee Nasty e al suo socio Lionel D, è passata buona parte di quei rapper che dal 1990 in poi sarebbero venuti alla ribalta grazie alla loro urgenza e a un linguaggio esplicito, senza filtri, che a quei tempi era una novità. Ho scoperto Radio Nova proprio nel ’96 e registravo su cassetta quelle trasmissioni rap, poi facevo i miei giri nei negozi di dischi (soprattutto intorno a Les Halles – oggi per lo più scomparsi) alla ricerca dei lavori di quegli artisti.Le periferie sono sinonimo di esclusione, in Rapropos invece sembrano (sembrano perché nel libro, effettivamente, è come se l’artista di successo non riesca a uscirne comunque) anche il luogo ideale per un riscatto, dove si formano uomini e donne che prendono per forza di petto la vita: questa premessa, in cui l’hip hop funge quasi da educatore spirituale, non può però essere anche il subdolo gioco del potere, quello di dimostrare che, comunque, volendo, tutti ce la possono fare?
“La migliore delle polizie [...] è la paura di fare un passo, poi due, poi tre, perché da ragazzino ti hanno detto che eri una merda e hai finito per crederci”, rappano i tipi de La Rumeur. Il sentimento di rivalsa degli esclusi delle cité è molto forte. Che poi il rap banlieusard sia letteralmente commerciale lo conferma la consapevolezza dei ragazzini: anche a dieci anni sanno che esprimersi in certi termini non impedisce l’entrata nel mercato. Poi però la strada non è così semplice: nonostante le radio francesi per legge debbano dare buono spazio alla musica francofona, i marchi commerciali che comprano gli spazi pubblicitari possono dire la loro, influenzando le selezioni. E questa è una denuncia proveniente dai veterani del rap che hanno stretto accordi con grandi case discografiche e frequentato studi radiofonici anche per lavoro, non una teoria del complotto. Il rap banlieusard, insomma, si è guadagnato il proprio spazio a spallate, nonostante polizia e politici lo abbiano querelato a più riprese. Il rap, come il calcio e la religione (in questo caso l’Islam), nelle banlieue è un punto di riferimento: ogni cité ha il suo atelier di scrittura rap auto-organizzato, non solo la sua moschea. Ai piani alti potrebbero anche arrivare ad affermare pubblicamente che la svolta è a disposizione di chiunque, basta volerlo o avere talento, ma i percorsi di vita accidentati raccontati nel rap, in questo senso producono una continua controinformazione, quindi non so quanto gli convenga.

A livello culturale e sociale, chi è il rapper francese?
Non tutti i rapper francesi vengono dalle cité, ma la grande maggioranza sì. Negli anni il livello culturale ha acquisito una dose di coscienza – sociale e politica – notevole: se una volta la moglie del poliziotto bianco, violento e razzista, andava in cité per scoparsi chiunque (si veda Brigitte, femme de flic, oggi gruppi come La Rumeur non sono isolati e ci sono molti artisti cresciuti col rap che assolvono di fatto una funzione intellettuale perché, anche nelle interviste, dimostrano di avere uno spiccato senso critico, una grande cultura storica, un punto di vista personale, o quanto meno non proprio diffuso, e un interesse per questioni mal esplorate. Il rapper francese è una figura in evoluzione, animatore del dibattito pubblico come pochi altri omologhi.

Allora, all’opposto di quello che scientificamente Bourdieu (sì, mi pagano solo se ci metto la citazione colta) ha analizzato, cioè che le classi “basse” cercano (in ultimo senza riuscirci per le necessità materiali) di accaparrarsi i gusti delle classi “alte” (considerate le guardiane della cultura pura), qui sembra che chi sta sopra voglia immedesimarsi anche con gli ultimi, partendo dalla musica. È un tentativo di capire attuato da chi non vive nelle banlieue o solo un colpo di coda dei consumi culturali?
Quello che dicono i rapper in qualche modo lo dicevano anche chansonnier come Renaud, Ferré o Brassens. Di certo con tutt’altro linguaggio (anche per questo all’epoca la classe media e la politica non si indignavano). Non è un caso che il rap in Francia sia esploso quando la rigogliosa scena rock degli anni ’80, figlia del punk (e, per quanto antagonista, per lo più bianca), stesse battendo gli ultimi colpi. Si è creato un vuoto colmato dal rap. La medio-alta borghesia in alcuni casi ha capito la portata del fenomeno, magari perché aveva avuto occasione di viaggiare verso New York o magari proprio perché individuava in quell’urgenza dei tratti che nella produzione musicale andavano scomparendo e che in Francia sono ancora riconosciuti vitali.

La vicenda del rapper Disiz e di altri che dopo aver fatto successo nel ghetto, gli hanno voltato le spalle, affermando che il rap non è più anticonformista e dandosi al pop, appare come uno scacco alla genuinità di tutti i musicisti delle banlieue che col successo possono, potenzialmente, prendere il volo. Secondo te esiste una vera identità banlieusard?
Notizia recente: Disiz è tornato al rap... Ma lasciamo stare la sua vicenda. Credo che la forza prima del rap francese sia proprio l’identità banlieusard, volente o nolente, consciamente o meno. L’esperienza di vita nelle cité segna e lo si può intuire prima di tutto proprio ascoltando il rap (in misura minore leggendo certi romanzi, guardando certi film e certe fiction tv). Ok, il rap in Francia permette di arricchirsi e porta alcuni esponenti a cambiare zona e toni del racconto, ma poi se non il brano, c’è sempre la rima o quanto meno l’intervista in cui la formazione banlieusard torna con prepotenza in primo piano. Le polemiche e le espressioni di malessere provenienti da chi una volta con queste star giocava a calcio e si faceva le canne sotto casa, credo vadano oltre il disagio specifico delle banlieue. Non è forse una dinamica comune di tanti ambienti?

Ti risponderò quando mi faranno una statua dove sono nato. In Italia un film sulle macellerie nostrane, come Diaz, è stato prodotto dopo 11 anni da Genova (e provocando non poche polemiche), in Francia L’odio è uscito nel 1995, dieci anni prima delle rivolte a tutti note. Il rap francese affronta da sempre temi scottanti, che rapporto hanno i rapper con la politica?
La grande rivolta del 2005 ha molti precedenti (leggi genitori) e il rap, anche indirettamente, aiuta a individuarne e capirne i moventi. È il motivo per cui quando scoppiano disordini in banlieue, i media interpellano i rapper. Rap politico? Non direi. Anzi, per lo più no, nel senso che prima di tutto è rap che racconta il quotidiano. Ripeto, la coscienza politica ne ha fatta di strada dagli anni ’90 a oggi. Un esempio: i rapper dopo il ballottaggio Chirac vs Le Pen si sono fatti l’esame di coscienza e ci hanno messo la faccia per sensibilizzare le banlieue, scendendo in strada per incitare al voto soprattutto i giovani. Detto ciò, i rapper che si possono definire prettamente politici e/o militanti restano una minoranza. Quella combinazione per cui il rap “muscoloso” veicola l’impegno è una peculiarità e una forza delle rime a tempo transalpine. Senza dimenticare che, rispetto agli Usa, la Francia è realmente vicina all’Africa, con cui ha continui scambi, più o meno ufficiali: questo è un fattore culturalmente influente.

Arriviamo all’oggi. Cosa può significare per il “ghetto” la probabile ascesa di Marie Le Pen e l’ancora più probabile scomparsa di Sarkozy?
Sarkozy ha sempre teso una mano all’estrema destra, sin da quando era Ministro dell’interno, spesso proprio auto-proclamandosi nemico pubblico numero uno delle banlieue, degli immigrati e dei rapper (si vedano le querele sue e di altri esponenti dell’Ump ai danni del rap). Hollande al momento pare sorridere alle banlieue. Ma quanti anni sono necessari per cambiare realmente le dinamiche di quei quartieri, per renderli parte non solo delle città con cui confinano ma proprio del paese Francia? Ci vorrebbe un ‘presidente della repubblica delle banlieue’ che faccia un lavoro mirato, coordinandosi man mano con il suo corrispettivo a capo del resto del paese. Siamo oltre la fantapolitica. In ogni caso, non essendo un politico non posso escludere che ci sia un metodo più realista ed efficace.

In Italia il rap è cominciato con tutti i migliori sentimenti antagonisti e di denuncia per poi diluirsi nell’attuale versione scema statunitense, di macchinoni, braccialetti d’oro e fica, cos’è successo da noi?
Le polemiche interne hanno spaccato la scena. La perdita dell’unità (parolone) insieme alle disillusioni innescate inevitabilmente dal precedente entusiasmo (ricordi il fermento dei primi anni ’90?) sono andate a scapito dell’identità. Il rap in Italia non nasce nei centri sociali ma il rap in italiano sì. E questo accade nel primo momento di vera popolarità mondiale del rap. Se in quegli anni aveva il marchio di musica di denuncia (grazie ai Public Enemy ma a suo modo anche grazie al gangsta rap), in Italia dove poteva trovare cittadinanza? La cultura hip hop negli anni ’80 in Italia ha trovato ospitalità per strada, poi anche in qualche club ma si è trattato di episodi isolati. Quando i centri sociali hanno aperto le loro porte a questo genere musicale, non senza discuterne prima in assemblea, la vecchia scuola, aizzata (involontariamente) dalla stampa meno attenta, si è sentita defraudata anche perché non poteva concepire l’equazione rap=denuncia+protesta, veniva da altri anni. Da spettatore e appassionato adolescente all’epoca, però, non potevo che incazzarmi con chi reagiva tendendo la mano alle major e pensando solo al proprio percorso e/o si dava alla versione più scanzonata del rap, che in quella fase di scoperta di fatto significava tendere una mano a “Cecchetto” e occultare l’ala impegnata. Oggi mi dispiace solo che il rap in Italia abbia perso una grande occasione, ma a posteriori credo sia del tutto lecito chiedersi se, vista la nostra realtà, poteva andare davvero altrimenti.

Gli argomenti non mancherebbero... io a scuola con le rime ero bravo... te sai cantare? Vabbè, puoi raccontarmi un aneddoto che hai vissuto nelle banlieue che riguarda anche il tuo libro? Se c’è del sangue è meglio...
Quest’estate, quando ho visitato l’atelier di scrittura rap di Aubervilliers e intervistato il ragazzo che lo teneva (come si legge nel libro, N.d.R.), era presente con noi anche un ragazzino del corso dei più piccoli. Aveva otto anni. Ho cercato di coinvolgerlo a più riprese ma c’è stato poco da fare: rispondeva per monosillabi, “oui”, “non”, “Sexion d’Assaut”, “Rhoff”. Mi ha stupito perché mi hanno detto che aveva già scritto e interpretato in pubblico dei rap, i cui testi, come si sa, sono dei fiumi in piena. Timidezza o diffidenza? Mi è rimasto il dubbio e alla fine non ho trovato modo di parlare di lui in Rapropos. Peccato.

Niente sangue, peccato.
Ora, anche dalle mie domande, si capisce, oltre che non capisco un cazzo di niente, che ho questa fascinazione perversa verso il ghetto di cui, non lo nego, adoro le storie ma m’impegno niente ad approfondirle. Seguendo questa logica non è un caso che i rapper francesi vendano moltissimo (più del solito diciamo) quando scoppiano casini nei loro quartieri, nel momento in cui, cioè, i media recapitano un’immagine approssimata delle periferie. Rapropos, attraverso i luoghi, le interviste, le foto e le storie dei rapper, cerca di restituire la complessità del rap e del suo habitat che, a loro modo, rappresentano una buona fetta della società francese e, a mio onnipotente avviso, della moderna questione sociale. Perché nel libro, anche con tanta carne sul fuoco, non c’è fumo, e i muri che dividono loro con il resto del paese si vedono bene. Adesso sto ascoltando Besoin de resolution di Medine (a proposito – anzi rapropos – nella copertina c’è proprio Medine) e, pur decifrando una parola ogni mille, potrei darvi il mio personale significato della canzone che, senza dubbio, non avrà nulla a che vedere con il testo ma che comunque ne centrerebbe almeno il movimento d’animo. Infatti il rap, il buon rap, quello ascoltato, pure se per alcuni può ridursi a rapidi vocaboli in fila, ha (può sembrare un paradosso visti gli episodi di alcuni rapper statunitensi) la facoltà della fratellanza, che, anche se lo origliamo da una radiolina in sottofondo, a denti stretti, mentre scattiamo nella catena di montaggio quotidiana, trasmette una vitalità (malinconica, collerica, frustrante, quello che volete) che, in qualsiasi lingua esso si manifesti, favorisce il volo della riflessione. Nessun volo strano, ma come nel film, a bassissima quota sopra ciò che ci circonda, banlieue o non banlieue.
Ascoltare per credere...
di Luca Pakarov
news.hotmc.com, 30 aprile 2012Rapropos: intervista a Luca Gricinella
Il rap francese è un universo talmente ampio e variegato che scandagliarlo tutto è davvero difficile. Un ottimo punto di partenza per cominciare a scoprirlo arriva dall’Italia, ed è un libro: si intitola Rapropos, esce per Agenzia X e lo ha scritto Luca Gricinella, giornalista musicale specializzato in rap e affini (tra le varie testate per cui scrive, “Rumore” e “Alias de il manifesto”), che ha vissuto a Parigi e frequenta con regolarità la Francia. Un lungo reportage dedicato al passato e al presente di un intero movimento, che spiega in maniera esaustiva e appassionante il perché oltralpe il rap è il genere musicale principale, quali sono le sue carte vincenti e molti altri retroscena e curiosità inediti. Musica e politica si intrecciano strettamente, da quelle parti, ed è difficile spiegare l’una senza raccontare l’altra: ecco perché, alla vigilia delle elezioni presidenziali che riconfermeranno o manderanno definitivamente a casa Sarkozy, abbiamo incontrato l’autore per scambiare quattro chiacchiere sulla scena hip hop più importante d’Europa (e sul perché i politici la temono così tanto).

Come sei approdato in Francia, innanzitutto?
Mi sono trasferito a Parigi nel 1996 e ci ho vissuto circa un anno. All’epoca avevo ventitré anni e avevo parecchi mesi liberi tra la fine del servizio civile e l’inizio della scuola di cinema, a cui volevo iscrivermi: dovendoli impiegare in qualche modo, ho pensato di raggiungere un mio amico che faceva l’Erasmus lì. Il mito di Parigi ce l’avevo da sempre, essendo anche appassionato di rock francese: negli anni ’80 era una scena davvero viva, basti pensare a gruppi come i Mano Negra, che quando ero ragazzino erano considerati gli eredi dei Clash. Quando abitavo lì mi capitava di girare per la città e ritrovarmi a frequentare gli stessi locali di questi rocker molto noti, che si mescolavano tranquillamente alla gente. Ma purtroppo all’epoca quel fermento era già piuttosto agonizzante: l’amministrazione cittadina aveva messo in atto da tempo una repressione ai danni della vita notturna e dei locali alternativi, sotterranei, a volte occupati. C’era ancora grande vivacità nell’ambiente delle radio, però: Radio Nova, ad esempio, che è un’emittente locale molto conosciuta, trasmetteva tantissimo hip hop, e io registravo religiosamente tutti i loro programmi su cassetta. Ho scoperto solo dopo che gli speaker e gli ospiti di turno erano personaggi fondamentali della scena hip hop francese, come Joey Starr degli NTM, Dee Nasty e tanti altri.

Il rap francese, quindi, l’hai scoperto sul posto oppure lo conoscevi già?
All’epoca la mia vera passione era il rap italiano: la scena francese l’ho approfondita soprattutto abitando lì. In realtà, però, il rap francese l’avevo già scoperto in Italia da “Rumore”, che è sempre stata la mia rivista musicale di riferimento. L’hip hop, nazionale e internazionale, era sempre presente sulle loro pagine: in particolare, avevano parlato molto bene di “Rapattitude”, che è stata la prima compilation rap/raggamuffin a emergere all’epoca [è uscita nel 1990 per l’etichetta Labelle Noir, ndr]. Una volta a Parigi ho cominciato a comprare qualche vinile, dal più banale e universalmente conosciuto Mc Solaar a Ménélik, NTM, IAM e tutti gli altri. In città, però, non si percepiva ancora tanto la presenza dell’hip hop: all’epoca la gente che frequentava la scena musicale era più orientata verso il rock, oggi a farla da padroni ci sono i “ritmi”.

Da dove nasce l’idea del libro?
Sul mio blog Blaluca, dove mi occupo soprattutto di sottoculture urbane, parlo spesso di vicende legate alla società e alla musica francese, e ho notato che l’argomento interessava anche alcuni insospettabili. Per questo ma non solo ho pensato di approfondirlo e, anche grazie a u.net [l’autore di Bigger than hip hop, Renegades of funk e altri libri sull’hip hop, ndr], ho provato a presentare il progetto ad Agenzia X, che si è dimostrata molto interessata al taglio. Senza dimenticare che la coincidenza delle imminenti elezioni in Francia senza dubbio ha giocato a favore della mia idea. E così eccoci qui! [ride]

Leggendo il tuo libro abbiamo scoperto che in Francia non è solo il rap a interessarsi di politica, ma è anche la politica che si interessa molto al rap, vedi le querele di Sarkozy ai danni di diversi rapper e i lunghi dibattiti sulla stampa. Perché questo rapporto così stretto e unico nel suo genere?
Secondo me dipende dal fatto che la società francese vive ancora un conflitto forte e irrisolto con il colonialismo, un capitolo importante della sua storia. Tant’è che i cittadini di origine africana, ormai trapiantati in Europa da tre o quattro generazioni, vengono ancora chiamati da molti “i nuovi francesi”; un’assurdità. Queste persone hanno scelto come mezzo di espressione il rap, e ovviamente i messaggi che veicolano e i modi con cui li esprimono generano grande clamore. Negli anni ’90 l’hip hop è letteralmente esploso, soprattutto grazie ad alcuni artisti provenienti dalle banlieue, che ne denunciavano le condizioni di vita: non era politica, era storytelling basato sulla loro esperienza, ma ovviamente chi governava ha recepito la cosa in modo diverso. Oltretutto, quella delle periferie francesi è una situazione molto più complessa di quello che sembra. Ad esempio, leggenda vuole che nelle banlieue ci vivano solo gli immigrati e i loro discendenti: non è vero, anzi, c’è una discreta percentuale della popolazione che è costituita dai cosiddetti “francesi di ceppo”. Inoltre, esistono zone ricche e zone povere, come capita nei sobborghi di ogni città del mondo: quelle che noi identifichiamo con la parola banlieue – quelle che si vedono nel film L’odio, per intenderci – sono in realtà le cosiddette cité, ovvero città a sé costituite da casermoni-dormitorio e pochi altri servizi.

In generale, il rap come viene percepito?
Il francese medio di solito è molto infastidito dai messaggi (spesso molto forti) che lanciano i rapper. C’è un pezzo dei Tandem, un gruppo della banlieue parigina, che secondo me in questo senso è molto emblematico, e recita “Fotterò la Francia fino a quando mi amerà”. Si tratta di canzoni che, nella patria dello sciovinismo, sono come un pugno nello stomaco; soprattutto per quella destra che si accorge con sconcerto che anche i suoi borghesissimi figli adolescenti si appassionano a questo rap, con il rischio che si generi una sorta di effetto di emulazione. È una musica popolarissima, vende centinaia di migliaia di copie, è spesso ospite dei mass media… Insomma, è percepita come un fattore di rischio e instabilità da alcuni politici, che così (a destra, ma un po’ anche a sinistra con i socialisti) finiscono per querelarne gli interpreti. Anche se la maggior parte delle querele sono scatenate dai versi contro la polizia, più che dai versi contro il Paese. E ci sarebbe da aprire un capitolo a parte sulla presenza della polizia nelle banlieue, unica rappresentante di uno stato estremamente repressivo. La scena d’oltralpe è quella con il più alto tasso di impegno sociale, ma ripeto, molti rapper non vogliono fare politica, raccontano semplicemente la loro vita e la loro storia.

Ma davvero la scena francese è ancora così socialmente impegnata, oggi? Come dicevi tu è estremamente sdoganata: l’aspetto mainstream del fenomeno è importantissimo. Basti pensare a Skyrock, l’unica radio nazionale dedicata solo all’hip hop, che per impegno sociale e messaggi veicolati è paragonabile all’attuale Mtv (cioè zero). O al fatto che uno dei rapper più famosi attualmente è Rockin Squat degli Assassin, fratello di Vincent Cassel e rampollo di una dinastia di attori e artisti: non certo un proletario…
Certo, ci sono stati parecchi tentativi di semplificare il messaggio dell’hip hop rendendolo innocuo, ma secondo me sono tutti falliti. Le azioni repressive hanno fatto più pubblicità che altro al rap: basti pensare a Sarkozy che porta in Assemblea Nazionale il caso di un gruppo di rapper semisconosciuti ai più, gli Sniper, obbligando di fatto tutti i giornali e i TG a occuparsene… Detto questo, è vero, esiste Skyrock, però è anche vero che i rapper si lamentano molto spesso della sua selezione, che cerca di trasmettere solo hip hop all’acqua di rose, escludendo di fatto la maggior parte delle canzoni valide (Akhenaton dice che dipende dagli acquirenti degli spazi pubblicitari). Ma alla fine nella società francese “pesa” molto di più quel tipo di rap che si guadagna credibilità e visibilità entrando nelle cronache: ogni volta che c’è una rivolta in banlieue sono i rapper a fare da opinionisti e intermediari, perché i media sono totalmente impreparati sul fenomeno. È l’attualità che chiama in causa l’hip hop, perché è la voce degli esclusi. Nelle cité è pieno di atelier e laboratori gestiti da educatori che insegnano ai ragazzini a fare beat e scriverci sopra le proprie rime: ne ho visitato uno quest’estate e c’erano bambini di otto, nove anni, che hanno già come punto di riferimento questo genere musicale e hanno ben chiaro il tipo di messaggio che vogliono mandare, un mix molto forte di denuncia e rabbia.

Secondo te una situazione del genere sarebbe replicabile in una nazione diversa dalla Francia? Perché, per esempio, in Italia non è andata così?
L’assetto sociale francese ha contribuito tantissimo a portare il rap alla ribalta. Secondo me, però, il vero segreto è che il rap oltralpe è riuscito ad affermarsi in un momento storico, gli anni ’90, in cui c’era molto fermento a livello internazionale. Anche in Italia era preso in considerazione anche al di fuori del circuito musicale: basti pensare al programma della Dandini, che ospitava ogni settimana un gruppo rap. Da noi, però, tutto è morto improvvisamente: sembrava che con SXM avessimo raggiunto l’apice e poi non sapessimo più cosa fare e come muoverci… oltre alla nostra passione per le polemiche interne. In Francia, invece, c’è stato uno zoccolo duro di pubblico che ha contribuito a mantenere alta l’attenzione, e le due grandi metropoli europee come Marsiglia e Parigi hanno fatto da catalizzatore e da laboratorio, dando un’identità banlieusard al rap. Difficile replicare quella situazione in un’altra nazione: in Paesi molto vicini e in parte francofoni, come il Belgio o la Svizzera, il fenomeno ha una portata molto minore, anche per l’assenza di vere e proprio metropoli cosmopolite dal respiro internazionale. C’è da dire infine che la legge francese impone alle radio di trasmettere una buona percentuale di musica nazionale, cosa che in qualche modo, volenti o nolenti, favorisce la diffusione anche del rap.

Nel tuo libro parli di due casi emblematici e opposti, a modo loro davvero curiosi: il primo è quello del rapper Don Gynéco…
L.G.: Una storia che ha fatto molto discutere. Doc Gynéco negli anni ’90 è stato uno dei rapper più commerciali e pop, ed era ormai passato di moda da tempo quando in pratica è stato assunto dal team di comunicazione di Sarkozy come tramite per creare un rapporto con le banlieue. Ai tempi il futuro presidente era letteralmente in guerra con le periferie: tutto era cominciato nel 2005, quando durante il suo mandato di ministro dell’Interno era andato in una banlieue e aveva chiamato gli abitanti racaille, una parola che vuol dire “feccia”, ma che utilizzata in quel contesto era più o meno come chiamare nigga un afroamericano. Per cercare di recuperare consensi ha fatto un tentativo molto goffo: si è presentato ai media affermando che lui e Doc Gynéco [che, per intenderci, è un personaggio con la stessa credibilità artistica e sociale dell’ultimo Coolio, ndr] avevano scoperto di essere molto amici e di condividere gli stessi valori. Dopodiché Doc Gynéco ha perfino scritto un libro, intitolato I grandi spiriti si incontrano, per raccontare la sua supposta amicizia con Sarkozy: pura propaganda elettorale, ovviamente. Nel libro, tra le altre cose, affermava di essere sempre stato di destra, ma di averlo capito solo recentemente: dopo questa uscita è stato boicottato dai fan e criticato dai media, col risultato che la sua carriera già traballante è colata del tutto a picco.

L’altro personaggio di cui parli diffusamente, del tutto diverso rispetto al precedente, è Médine…
Si tratta di un rapper molto più underground, conscious e impegnato. La religione islamica è estremamente presente nella sua vita, basti pensare che il suo logo mostra un minareto e che uno dei suoi album più famosi si chiama Jihad: nonostante questo, però, non è uno che fa proselitismo o propaganda religiosa, ma parla soltanto del suo ambiente di provenienza, dei suoi valori. È difficile immaginare cosa succederebbe in Italia o anche solo in America se qualcuno intitolasse un album Jihad. Il sottotitolo del disco, però, recita “La più grande lotta è contro se stessi”, dimostrazione del fatto che non inneggia a guerre religiose: in Francia questo tipo di messaggio è stato capito e anche più o meno accettato. Lui ha un’esposizione mediatica decisamente minore rispetto a Doc Gynéco, ma quando è finito alla ribalta ha conquistato un buono spazio su tanti giornali. In Francia per un rapper è facile finire sui quotidiani nazionali: quest’estate ho conosciuto una signora più o meno settantenne che conosceva benissimo Joey Starr e la sua vita, perché aveva letto gli articoli su di lui pubblicati da Le Monde. In Italia sarebbe impossibile.

Nel libro parli anche di calcio, e in particolare della nazionale francese. Che cos’ha in comune con il rap?
L’assenza dello Stato nelle cité ha prodotto veri e propri paradossi: il sistema scolastico funziona malissimo e, come dice La Rumeur, ti convincono che non conti niente fin da quando sei bambino. I veri punti di riferimento sono il rap, la religione islamica e il calcio: è una delle vie di uscita possibili dal ghetto, come dimostrano le storie di tanti campioni come Zidane o Benzema. Nello specifico, nel libro io ne parlo per via di alcune dichiarazioni rilasciate in coppia da Booba e Anelka e per la denuncia che tanti rapper, Akhenaton prima di tutto, avevano fatto riguardo alla nazionale francese. Akhenaton dice che fin quando la squadra vince nessuno si preoccupa delle origini o della religione dei suoi componenti, mentre non appena perde tutti tirano fuori il problema: non sono abbastanza affezionati alla patria, hanno identità troppo diverse per poter coesistere e altre argomentazioni simili… È un tema molto sentito, tanto che nel 1998, quando vinsero i mondiali, Le Pen si era rammaricato del fatto che ci fossero così pochi “francesi” in squadra.

Una cosa di cui invece non parli in Rapropos è la commistione musicale: ci sono decine di sottogeneri, come lo zouk o il Raï’n\'B, che esistono solamente in Francia e mescolano elementi urban a elementi di musica tradizionale africana…
Secondo me succede perché c’è una fortissima familiarità con la musica black, nel senso più ampio del termine: il funk e il soul sono conosciuti in maniera universale, i gruppi e i concerti sono numerosissimi. Per fare un esempio banale su un film uscito un paio di mesi fa al cinema, il protagonista di Quasi amici, commedia che si basa su solidi cliché, è un appassionato di musica nera anni ’60 e ‘70, e non di rap, proprio perché è una cosa normale e credibile là (anche se viene il dubbio che se lo avessero dipinto come un appassionato di rap, il personaggio sarebbe piaciuto di meno). Le persone di origine africana continuano ad avere un rapporto molto forte con il continente di provenienza, sia perché è vicino e spesso ci tornano in vacanza, sia perché tengono molto al proprio retaggio musicale e culturale. Queste commistioni sonore nascono così da sempre, e credo che presto cominceranno a nascere anche in Italia: sul mio blog, per esempio, parlo di PepeSoup, un gruppo di Roma che unisce i bassi tipici dell’Inghilterra contemporanea ai ritmi tradizionali africani, e il risultato è potentissimo.

Restando in tema di cinema, un altro film di cui parli diffusamente nel libro è Polisse, che ha anche vinto un premio a Cannes. Cos’ha di particolare?
Il film parla di un reparto della polizia che si occupa di tutela dei minori. Quando ho iniziato a vederlo sono rimasto basito, non volevo crederci, ma alla fine ho dovuto convincermi: quello sullo schermo nei panni di un poliziotto era proprio Joey Starr degli NTM, che musicalmente si è fatto conoscere proprio grazie alle sue invettive contro la polizia (come il brano Police)! [ride] Anche nella sua autobiografia si scaglia senza mezzi termini contro le forze dell’ordine: equivocare la sua opinione sulla materia è impossibile anche perché ribadisce il suo disprezzo, comprensibile per chi è cresciuto nelle cité, ogni volta che lo interpellano. Eppure… Il film ha creato anche delle polemiche molto intelligenti e costruttive, ad esempio sul fatto che gli agenti, pur di “salvare” i minori da potenziale violenza, violano alcune regole restringendo così la libertà degli individui sospetti (adulti, chiaramente). Ma non è per questo che Joey Starr ha accettato la parte: ha dichiarato che non ha cambiato idea sulla polizia, che ha deciso di partecipare al film perché ormai fare l’attore è uno dei suoi due mestieri principali (l’altro sapete qual è). Insomma, è un po’ come se avesse voluto affermare che lui può permetterselo, anche per la credibilità che si è guadagnato tra i patiti di rap di almeno due generazioni.

Last but not least: secondo te chi vincerà le elezioni in Francia, al secondo turno?
Credo che il prossimo presidente sarà il candidato del partito socialista, Hollande, anche se Sarkozy ha avuto un’importante rimonta nei sondaggi negli ultimi mesi. Quelle francesi sono statistiche complesse, anche perché molto dipende da quello che faranno gli elettori di sinistra del Front de Gauche e gli estremisti di destra del Front National, che saranno determinanti al ballottaggio. Sarkozy tende la mano da sempre a questa e ad altre realtà di estrema destra proprio perché conosce la forza acquisita dai Le Pen, padre e figlia, soprattutto in questi ultimi dieci anni. In ogni caso, secondo i dati attualmente disponibili l’astensione delle banlieue sarà ancora molto forte, nonostante le campagne (spesso patrocinate da rapper) che invitavano i giovani delle periferie ad andare a votare. Hanno la percezione che cambiare presidente incida davvero poco sulla loro vita, perciò non ci provano neanche. Disillusione totale.
di Blumi
www.carmillaonline.com, 23 aprile 2012Rapropos, il rap racconta la Francia
Luca Gricinella si occupa da tempo di musica e società, di come queste due sfere interagiscano tra loro e si riproducano. Seguo spesso i suoi articoli sul supplemento “Alias de il manifesto”, mentre sul web mi sta molto a cuore la sua rassegna stampa sull’Argentina. Per l’appunto gli interessi di Gricinella si dividono su due linee geopolitiche e musicali, l’Argentina (in particolare il rock nacional) e la Francia (con un occhio di riguardo verso l’hip hop). Nel primo caso mi colpì il suo articolo sul rockero argentino (di origini italiane) Luca Prodan, uno dei miei miti musicali, poi integrato da una notevole intervista al fratello di Luca, l’attore Andrea Prodan. Gricinella infatti è uno dei pochi italiani che con me condividono una passione per i Sumo, la band post-punk anni Ottanta di Buenos Aires, e questa passione comune ci ha messo in contatto. Quando ho scoperto che Gricinella aveva pubblicato un libro sull’hip hop francese sono rimasto subito incuriosito, perché conoscevo la meticolosità con cui aveva lavorato nel contesto argentino.
Leggendo Repropos (il titolo gioca alla maniera del verlan parigino con l’espressione “a propos”) mi è parso subito chiaro, a partire dal sottotitolo, che Gricinella non è rimasto chiuso nel recinto tecnico delle faccende musicali ma ha utilizzato il rap per raccontare la Francia contemporanea a cominciare dal protagonismo musicale e dalla rabbia delle periferie parigine. E lo ha fatto riflettendo in maniera critica sul film L’odio, che in Italia ha reso familiare le banlieu a chi a Parigi andava solo a vedere il Quinto arrondissement, o triangolando tra calcio, nazionale e multiculturalismo, o interrogandosi tra i diversi sviluppi del rap italiano degli anni Novanta e del rap francese (in molti si ricorderanno il palco mediatico offerto al rap italiano e il rapido recupero spettacolare di questa corrente a metà degli anni Novanta). Ovviamente Gricinella si interroga sui rapporti tra rap e emigrazione (non per forza africana): uno dei migliori rap marsigliesi è Akhenaton, di origini napoletane; tra rap e islam (lo stesso Akhenaton si è convertito all’islam controllare se mi sbaglio); tra rap, omofobia e sessismo. Ne emergono figure interessanti, come la rapper Diam’s, e altre meno intriganti, come Doc Gynéco, da poco balzato sul carrozzone elettorale di Sarkozy. Il risultato è un’intrigante istantanea della Francia contemporanea, raccontata attraverso il diaframma del rap in maniera ineccepibile dalla penna di Luca Gricinella.
di Alberto Prunetti
www.senzasoste.it, 21 aprile 2012Luca Gricinella. RAPROPOS
Unico nel suo genere in Italia, quest’ottimo saggio del giornalista Luca Gricinella, autore di numerosi articoli pubblicati su testate come “Rumore” e “Alias-il manifesto”, ci offre l’occasione di approfondire concretamente la complessità del rap in un paese come la Francia. Una domanda a qualcuno potrebbe sorgere spontanea: perchè un testo sul rap d’oltralpe e non, invece, sulla scena italiana? Partiamo innanzitutto da una considerazione basilare: Gricinella ha trattato l’argomento adottando un taglio sociologico, piuttosto che concentrarsi sull’evoluzione stilistica del rap francese e sulla sua cronistoria. Ed ecco che in parte abbiamo già trovato una risposta alla domanda iniziale. Si, perchè i presupposti che caratterizzano le due scene appaiono completamenti differenti. La maggior parte del rap francese proviene infatti dalle difficili realtà delle banlieue parigine e marsigliesi, cittadine satelliti separate fisicamente dalla città vera e propria, dove è in atto da tempo una vera e propria guerra sociale. Le rivolte del 2005, e prima ancora quelle del 1993, non vanno considerate come un caso isolato, ma come l’apice di un clima di tensione alimentato consapevolmente dai dirigenti politici, primi fra tutti gli esponenti di destra ben rappresentati al momento da Nicolas Sarkozy. Le banlieue assomigliano, quindi, a degli immensi ghetti nei quali viene sperimentato sistematicamente un apartheid alla francese, luoghi in cui l’unica forma di mediazione sociale istituzionale è rappresentata dalla massiccia presenza delle forze di polizia, e questo la dice lunga. La composizione etnica della popolazione ci racconta, soprattutto ma non solo, di figli di immigrati dalle ex-colonie africane; Francesi di fatto, come scritto nella loro carta d’identità, ma contemporaneamente “stranieri nella loro nazione”.
Il rap dà loro voce, una voce presa seriamente in considerazione dalla società francese, dalla sua stampa e dai suoi politici. Ma il rap, così come lo spaccato della società da cui proviene, è una faccenda necessariamente complessa e talvolta controversa, tanto da risultare impossibile racchiuderlo in qualche semplice clichè.
Non una moda passeggera, come alcuni erano portati a pensare, ma una vera e propria forma di comunicazione ormai radicata, soprattutto tra la popolazione delle banlieue. Mi torna in mente un’affermazione che Chuck D dei Public Enemy rilasciò ai tempi dell’uscita di Fear of a Black Planet (1990), ovvero che “Rap is the Black CNN” (il rap è la CNN dei Neri). E di analogie tra la comunità afro-americana e i Banlieuesard ne non mancano di certo, ve ne accorgerete nella lettura. Vale la pena di ricordare, a tal proposito, che quello francese rappresenta per il rap un mercato discografico secondo solo a quello statunitense.
Ci tiene però a precisare Luca Gricinella, che il saggio “non si occupa di banlieue ma della portata sociale del rap in Francia”, la quale non appare indifferente, data la serietà con la quale vengono prese in considerazione le rime dei maggiori esponenti della scena, spesso trascinati in tribunale dagli esponenti politici di destra, nonchè tirati in ballo dalla stampa appena se ne presenta l’occasione. Ma, per citare le parole di Grégory Curot, caporedattore di “Rap Mag” (una delle più importanti riviste di settore che ha ormai chiuso i battenti) intervistato da Gricinella, “fare rap significa parlare di ciò che si vive”; inevitabile, quindi, che l’argomento delle periferie torni spesso nella trattazione. Un forte accento alla componente militante dal punto di vista politico e da quello dell’impegno sociale emerge in più parti, mentre interi capitoli vengono dedicati a temi controversi come sessismo ed omofobia. Di particolare interesse, utile soprattutto a scardinare pregiudizi più che mai presenti al giorno d’oggi ma anche per stimolare una certa curiosità, è la sezione riguardante il rapporto che intercorre tra rap ed Islam.
Un dato affascinante è rappresentato dalla “colonizzazione della chanson française” da parte del rap. Per intenderci, si tratta chiaramente di quel processo di fusione culturale che la musica è sempre stata capace di attuare nella storia dei popoli. Interessante notare che, mentre il rap costituisce la forma canzone più diffusa sul territorio urbano d’oltralpe, alcuni dei nuovi esponenti delle rime a tempo stiano assumendo nel loro DNA il patrimonio di autori quali Jacques Brel e George Brassens. Ennesima dimostrazione, e mi permetto una considerazione del tutto personale, di come sia ormai evidente che un concetto storicamente dannoso quale “identità nazionale” perda inevitabilmente di significato in una socità che non può più rispecchiarsi soltanto attraverso i cosiddetti “francesi di ceppo”. Anche per questo, aggiungo, qui in Italia dovremo forse aspettare una nuova generazione, quella dei figli di coloro che ora siamo a abituati a considerare semplicemente come “immigrati”, perchè si possa giungere ad un profondo e necessario rinnovamento culturale.
Per concludere, tra vecchia e nuova scuola non mancano nel testo riferimenti a nomi, per citarne solo alcuni, come NTM, IAM, Ministère A.M.E.R.E., Assasin, Mèdine, Diam’s (della quale vengono riportati anche frammenti di un’intervista), Keny Arkanae Le Rumeur. Nomi che ritroverete in una discografia essenziale che Gricinella ha preparato in coda al libro assieme, ovviamente, ad una bibliografia e ad una filmografia, nella quale trova ovviamente posto anche L’odio di Mathieu Kassovitz, film al quale si accenna spesso nel testo.
Rapropos (2012, Agenzia X) è una lettura densa, frutto evidente di un lungo e paziente lavoro nonchè di una passione degna del miglior giornalismo, una lettura nella quale certamente troverete spunti sui quali tornare a riflettere.
di Aldo De Sanctis
Radio onda rossa, aprile 2012Rapropos a Daje Pure Te
Il Duka parla su Radio onda rossa a Daje Pure Te di Rapropos. Il rap racconta la francia ASCOLTA
www.rockit.it, 6 aprile 2012Rapropos. Il rap racconta la Francia
Se negli anni Novanta eri un adolescente in fissa per il boom cha, c’erano sogni più a portata di mano rispetto a New York e Los Angeles: Parigi e Marsiglia. La Francia, oggi come ieri, riveste un ruolo fondamentale per l’hip hop europeo. Un suono che brucia come la banlieue, un bacillo che dall’underground infetta il mainstream, un fenomeno popolare ma comunque credibile, vero, cazzuto. Luca Gricinella – giornalista - racconta un paese attraverso il suo rap, con piglio sociologico e la fotta di chi – appunto – ha sempre osservato cosa succedeva in quel paese così vicino all’Italia eppure alle volte così lontano. Si parla di Islam, sessismo, violenza, censura, sobborghi, music biz. Si parla di Francia e si parla di rap. Un libro necessario per approfondire un fenomeno che è riuscito a valicare le barriere, estendendo la propria influenza al di là dei confini culturali e geografici.
di Enrico Piazza
Radio popolare, 4 aprile 2012Rapropos a jalla! jalla!
Nella seconda parte di trasmissione ospitiamo Luca Gricinella, giornalista musicale tra i pochissimi a scrivere e, se vogliamo, a supportare la cultura hip hop e in modo particolare il rap sulla stampa main stream. Luca ha scritto un libro molto interessante, Rapropos. Il rap racconta la francia, in libreria per Agenzia X, e ci porta in viaggio tra le banlieu d’oltralpe dove, da oltre vent’anni, il rap anima il dibattito pubblico a cui partecipa anche senza invito. ASCOLTA L’INTERVISTA QUI
www.certastampa.com, 13 marzo 2012Rapropos: a proposito del racconta la Francia
Prendi un disco dei Le Rumeur, accomodati in poltrona e dai inizio al viaggio. Uno zig zag tra i palazzi delle banlieue e le comode sedute dei politici francesi. Questo è Rapropos, il nuovo libro di Luca Gricinella, edito da Agenzia X, nelle librerie dal 14 marzo 2012.Una penna, quella di Gricinella, che ai lettori più attenti non risulterà nuova. Classe ’73, giornalista freelance, lo ricordiamo soprattutto per i suoi articoli su “Alias – il manifesto” e “Rumore”. Uno dei pochissimi a scrivere e, se vogliamo, a supportare la cultura hip hop e in modo particolare il rap sulla stampa nazionale.
La sua attenzione all’aspetto prettamente sociologico del tema rende certamente degno di nota l’autore di questo progetto “a proposito di rap”, appunto. Impossibile non domandarsi come un professionista, uscito dalla Civica Scuola di Cinema di Milano, sia finito nell’oblio del giornalismo musicale.
“Nel 1990 avevo diciassette anni, dunque ho incrociato i primi rap in italiano in un’età in cui è facile entusiasmarsi, specie se fino a quel momento hai avuto a che fare per lo più con musica cantata in inglese mentre sin dalla scuola media hai studiato come unica lingua straniera il francese. In realtà l’entusiasmo di quegli anni, forse derivante dall’illusione di essere usciti dal rullo compressore degli anni ’80, riguardava anche ventenni e trentenni e i testi musicali cantati in italiano (non mi riferisco solo al rap) erano uno degli elementi scatenanti di quel clima che cercava di prendere le distanze appunto dalla plastica degli anni ’80. Qualche anno dopo questo boom di rime in italiano ho frequentato il biennio professionale di sceneggiatore e autore tv presso la Civica Scuola di Cinema di Milano perché volevo scrivere e da anni seguivo il cinema come e più della musica. Uscito da lì, a maggiore ragione volevo scrivere e a quel punto mi sono ricordato della passione per il rap così ho provato a proporre prima recensioni, poi articoli e interviste a qualche testata” racconta Luca Gricinella all’alba dell’uscita di Rapropos, un documento dove una scena musicale estremamente forte e radicata in Francia si racconta e si fa raccontare.Dove nasce l’interesse per il rap francese?
Nel 1996 ho vissuto a Parigi. Dall’anno si può intuire come l’entusiasmo di cui parlavo prima era ancora vivo. In Italia a dirla tutta stava scemando ma in Francia bastava ascoltare una radio importante per il rap francese e molto presente in città come Radio Nova per rendersi conto che il rap aveva ancora molto da dire, anzi stava continuando a crescere. Si poteva insomma riconoscere quel fermento che qui si è perso anche per polemiche e spaccature interne alla scena, oltre che per questioni e dinamiche sociali e culturali di certo differenti rispetto alla Francia.
Un saggio dove non mancano gli interventi di artisti più o meno conosciuti dalle orecchie italiane; dove non si sorvola sui nei di questo teatro, nascondendo aspetti contraddittori; dove nulla è lasciato al caso dalle dichiarazioni di un segretario di stato come Nadine Morano alle denunce del NTM; dove si tratta l’argomento con la dovuta schiettezza. La stessa franchezza che rende vivo - o perlomeno dovrebbe - il rap. Una raccolta di spunti per intraprendere il discorso infinito sui sobborghi francesi o per approfondirne uno degli aspetti che caratterizzano queste periferie. Si parla di processi, di legami religiosi e politici, di ideologie, di rabbia, rivolte, ma anche di paralleli tra la quotidianità del ghetto, quella degli oppositori del verlan e le “comiche” di un sistema tutto italiano.Com’è nata l’idea del libro e cosa ti ha spinto a cimentarti in questo lavoro?
Capire come mai in un Paese così vicino all’Italia si sia sviluppato il secondo mercato hip hop al mondo e, con ogni probabilità, la scena rap nazionale con il più alto tasso di impegno. Il rap in Francia è un fenomeno popolare ma credibile e in più casi radicale. Un fenomeno quanto meno originale.Rapropos è un libro che racconta una cultura musicale molto forte in Francia, legata inevitabilmente ad aspetti socio-politici. Eppure capita che l’attenzione venga spostata anche su alcuni avvenimenti e personaggi italiani. Francia - Italia. Italia - Francia. Una liaison che persiste: dalla storia ai mondiali di calcio (come hai ricordato nel libro); dalla musica alla politica del ridicolo.
Infatti credo che la Francia, tra i paesi confinanti sia quello più affine all’Italia, anche per i continui e inevitabili scambi che avvengono in diversi settori. Nel libro intervisto Keira Maameri, una cineasta francese di origine algerina che ha girato vari documentari sull’hip hop, tra cui uno notevole sul rapporto tra rap e Islam.
Parlandomi dei suoi progetti futuri mi ha detto che per il momento metterà da parte l’hip hop per investigare sul calcio francese e soprattutto sul razzismo all’interno del calcio professionista. A occhio e croce il razzismo interno al calcio non riguarda certo più la Francia dell’Italia.
Nel bene e nel male credo che Francia e Italia si influenzino con una certa intensità. Purtroppo nel rap gli influssi transalpini sono ancora pochi. Forse bisognerà aspettare che si faccia strada una prima folta generazione di italiani di origine africana (o, perché no, filippina, per esempio) e si potranno azzardare paragoni.

Conclude così l’autore, che ha raccontato una Francia che si tende a dimenticare e di cui se ne parla veramente troppo poco. Fortunatamente c’è chi condivide l’informazione e anche chi sa riconoscere il potere che la musica di fatto ha in certi contesti.
di Nicoletta Cogoni
www.ondarossa.info, 13 marzo 2012Intervista a Radio onda rossa
Il secondo ospite è Luca Gricinella, autore del saggio Rapropos. Il rap racconta la Francia. Un saggio che usa la storia della cultura e del movimento rap per raccontare i conflitti e le banlieue francesi. (dal minuto 64)
Ascolta qui l’intervista
http://flatlandia.radiondadurto.org, 12 marzo 2012Intervista a Radio onda d’urto
Luca Gricinella, giornalista che ha vissuto in Francia per un certo periodo e si è sempre occupato di hip hop da un punto di vista sociologico, ha pubblicato Rapropos per Agenzia X. Il libro ha come sottotitolo “il rap racconta la Francia” ed in esso non si parla solo di musica. Ci sono i politici, le rivolte nelle banlieue, il cinema, il calcio… Ascolta qui l’intervista
www.hiphopreader.it, 2 marzo 2012Rapropos. Il rap racconta la Francia
“Quartiere Muguets, anni novanta. Le forze dell’ordine presidiano una cité, una delle città satellite della banlieue parigina. All’ombra di blocchi di cemento sviluppatisi in altezza, si respira un clima di tensione: la notizia del grave ferimento di un sedicenne del quartiere durante un interrogatorio in commissariato, ha generato una notte di guerriglia urbana.”
Così con un riferimento esplicito a L’odio di Kassovitz, si apre Rapropos. Il rap racconta la Francia, il primo libro di Luca Gricinella, giornalista musicale da tempo attento osservatore della scena hip hop nostrana, e non solo, sulle pagine de “il manifesto” e “Rumore”. Nonostante il rimando cinematografico nella premessa, Rapropos non è un libro che parla di banlieue bensì una riflessione sulla portata sociale del rap nella Francia contemporanea: che si parli di giustizia, politica, minoranze sociali, religione, razzismo, identità nazionale o sessismo, lo si fa sempre a proposito di rap, movimento culturale ed espressivo in grado di interpretare la società francese e di animarne il dibattito pubblico. Dal cinema alla letteratura, dalla stampa alla politica, il rap è un elemento culturale di primo piano nella realtà francese. Arrivato nelle strade di Parigi nei primi anni Ottanta, il rap trova da subito un terreno fertile in cui svilupparsi ed evolvere, con uno zoccolo duro nelle banlieue dove tag, rap, scratch rappresentano la colonna sonora delle periferie urbane e il suono del conflitto. E non è un caso che, sempre nell’Odio, all’indomani dei disordini avvenuti a Muguets e come tributo agli stessi, Cut Killer suoni e mixi Non, Je ne regrette rien di Édith Piaf con Sound of da police di KRS One, Police degli NTM e Je Glisse degli Assassin: quei pochi fotogrammi densi di musica e alto valore simbolico raccontano il luogo, i protagonisti e la frustrazione di quella rivolta dal basso. Così come nell’America degli anni Ottanta il rap rappresentava la Cnn del ghetto (ChuckD), così in Francia rappresenta da sempre la voce dei senza voce. Dal cinema alla letteratura, dalla stampa alla politica, il rap è un elemento di primo piano nel dibattito pubblico d’oltralpe. Per fare due chiacchere a proposito di rap e delle differenze tra la scena francese e quella nostrana abbiamo incontrato l’autore, Luca Gricinella.Perché la Francia e l’hip hop francesce. Che cosa ti ha spinto ad approfondire quella realtà?
Mi sono appassionato al rap intorno al 1990 grazie alle rime di Onda Rossa Posse e Isola Posse All Stars. In quegli anni sulle riviste italiane, in particolare “Rumore”, le produzioni degli NTM e Rapattitude, la prima compilation hip hop francese, avevano quanto meno la stessa considerazione delle uscite rap statunitensi. Aggiungi a questo che sin dalle scuole medie ho studiato come lingua straniera il francese, che ho viaggiato a più riprese in Francia e che nel 1996 ho vissuto a Parigi per circa un anno. Oltrepassando questo retroterra, il pensiero che nell’unico paese confinante con l’Italia in cui si parla una lingua latina, il rap venda centinaia di migliaia di copie e si sia guadagnato a spallate una considerazione trasversale, mi è sembrato un primo degno spunto per approfondire questa realtà. Senza considerare che una volta Yared, mc dei bolognesi Camelz (FCE), mi ha detto che nei primi anni novanta all’estero il rap italiano era tenuto d’occhio e considerato quanto quello francese: lì si è affermato a livello popolare, qui si è perso gran parte dell’entusiasmo e dunque una buona occasione. Ok, anche in Italia ora il rap vende ma il potere mi sembra sia saldamente nelle mani delle major perché non si capisce bene su cosa potrebbero contrattare i rapper italiani: la maggioranza non morde, non è incisiva, non sembra sapere cosa raccontare.Analizzando ciò che il rap è in Francia e ciò che non è diventato in Italia, puoi brevemente sintetizzare le diversità che hanno portato ad una diffusione ed evoluzione tanto differente in due paesi tanto vicini?
Nel saggio do una mia versione su questa diversità. Qui da noi fin quando i centri sociali hanno ospitato assiduamente il rap diventandone di fatto un genitore, per quanto controverso - soprattutto all’interno della scena - perché adottivo, c’era un fermento unico. Il background culturale manifestato nei testi, per quanto a volte retorici e ingenui, conferiva al rap italiano un’identità netta. Non mi riferisco solo agli artisti militanti: certi temi avevano conquistato quasi tutta la scena (vedi per esempio Il Comitato con “La casa è un diritto”). Era un percorso originale che si è interrotto presto. Be’, in Francia c’è un’identità banlieusard che non è mai andata persa: il 90% del rap francese è prodotto da artisti che vengono dai cosiddetti “quartieri sensibili”. E i ragazzini delle banlieue sanno bene che il rap è una potenziale via d’uscita dal “ghetto”, proprio come il calcio (vedi Zidane, Anelka, Benzema ecc. ecc.).Cosa ti ha fatto pensare che il rap potesse esser lo strumento più adatto per raccontare la realtà socio-politica francese?
Le reazioni della società francese di fronte ai testi rap. Il rap in Francia, volente o nolente, provoca. Prima di tutto perché tocca dei temi caldi come il colonialismo, il razzismo, l’identità nazionale, il multiculturalismo. E nel paese di “Liberté, Égalité, Fraternité” ti assicuro che non piace a molti ascoltare il sentimento di esclusione di una parte di francesi urlato in maniera tanto esplicita. Come non piace che si denuncino le malefatte della polizia (e dunque dello stato) e si sostenga che la nazionale di calcio francese, più che il paradiso della convivenza “Black Blanc Beur” in realtà sia una messa in scena, una menzogna a cui è comodo credere.Nella realtà etnica e sociale francese, qual è la portata sociale della musica rap e della cultura hip hop?
Di fatto il rap è un megafono molto potente della voce degli esclusi. Il rap in Francia non è sostenuto solo dalle banlieue: lo ascoltano anche i cosiddetti “francesi di ceppo”, specie i ragazzini figli della borghesia. Anche per questo i politici lo temono e querelano in continuazione e l’estrema destra incita a boicottarlo, specie quando i rapper danno una versione alternativa della storia. Nel contempo i quotidiani più prestigiosi ospitano il rap di continuo, la letteratura lo cita e il cinema lo corteggia. Insomma, il rap oltralpe ha un ruolo sociale di rilievo, da vari punti di vista inattaccabile. Lo confermano tutte le sentenze che hanno dato torto al politico di turno che ha intentato causa a questo o quel rapper. Le altre discipline hip hop godono di riflesso di questo rilievo che ha il rap.

Puoi darci evidenza di artisti il cui lavoro e impegno hanno influenzato il dibattito culturale e di conseguenza la produzione artistica?
Médine, il rapper in copertina di Rapropos, è una figura importante per la comunità islamica francese - la più numerosa d’Europa. La sua opera è un concentrato di impegno, coscienza e controcultura incentrata su temi spesso e volentieri relazionabili all’islam. Non è uno dei rapper più noti di Francia ma di certo uno che non lascia indifferenti. La Rumeur invece è il gruppo oggetto di una persecuzione giudiziaria ordita da Sarkozy e per fortuna infruttuosa. I suoi membri scrivono fanzine di controinformazione, ideano e realizzano serie tv, partecipano ai talk show televisivi ecc. Sono inseriti ma nel contempo lanciano messaggi radicali in cui rifiutano quella che si potrebbe definire la verità ufficiale francese. E lo fanno su basi rumorose, non certo pop. Magari poi movimenta più il dibattito pubblico un “Fuck la France” di Booba, forse il rapper francese più noto, ma solo perché la gente sa da dove viene, conosce ormai bene il suo background banlieusard.
di u.net
www.rexistenz.org, 17 febbraio 2012Intervista a Luca Gricinella
Ascolta l’intervista a Luca Gricinella sul suo nuovo libro Rapropos. Il rap racconta la Francia a cura di Pablito el drito
di Pablito el drito
www.rapburger.com, 3 febbraio 2012Presto disponibile il libro “Rapropos. Il rap racconta la Francia”
Dopo i libri di u.net, la casa editrice Agenzia X sta per tornare nelle librerie con un nuovo saggio sul rap: dal 14 marzo sarà disponibile Rapropos. Il rap racconta la Francia di Luca Gricinella, giornalista freelance che si occupa spesso di Hiphop da un punto di vista sociologico. Tra i protagonisti del libro ci sono Médine, Booba, Diam’s, La Rumeur, Orelsan, Keny Arkana, Disiz, Abd Al Malik, D’ De Kabal, i Sexion d’Assaut, Princess Aniès, Doc Gynéco e naturalmente i pilastri del rap transalpino IAM e NTM, rappresentati più che altro da Akhenaton e Joeystarr. Ma non solo loro: a giocare un ruolo non proprio di secondo piano ecco il “piccolo Napoleone” Nicolas Sarkozy, il calciatore disobbediente Nicolas Anelka e Mathieu Kassovitz con i suoi personaggi più noti, Hubert, Saïd e Vinz (L’odio). Senza dimenticare Bouna Traoré e Zyed Benna, i due adolescenti, “morti per niente” nell’autunno del 2005, quando le banlieue hanno preso fuoco. Rapropos racconta un paese, la Francia, attraverso il suo rap e alla vigilia di nuove elezioni presidenziali a cui la disciplina musicale dell’hip hop non resterà certo indifferente. Luca Gricinella ha vissuto a Parigi e viaggiato a più riprese in Francia; Rapropos è il suo primo libro.
di RapBurger
Kult, aprile 2012Rapropos: la società francese raccontata attraverso il rap
Luca Gricinella, giornalista ed esperto di hip hop (attualmente scrive soprattutto per “Rumore” e “Alias del manifesto”) si lancia in un’impresa a dir poco titanica: spiegare il complesso rapporto tra il rap francese e la madrepatria Francia, appunto. Lo fa con il libro Rapropos: il rap racconta la Francia, in uscita per Agenzia X.
Rumore, aprile 2012Rapropos. Il rap racconta la Francia
Il titolo del libro, che potrebbe tradursi verosimilmente in un italiano dichiarap, crea una giustificata aspettativa circa la presenza di tante parole dei protagonisti. Promessa mantenuta, nonché sviluppata con lucidità tessendo una tela ben più ricca e varia di quanto potrebbe rappresentare un semplice elenco di interviste a MC e DJ della scena transalpina. I rapper ci sono, eccome. Ma le loro intenzioni si incastrano in una trama di largo respiro, nella quale convergono differenti punti di vista su argomenti assortiti. Per L’odio di Mathieu Kassovitz l’opinione di un 30enne francese di origine antiliana di passaggio in Argentina pesa quanto quella di un docente universitario o di Abd Al Malik, nell’analisi del rapporto tra banlieue , hip hop e polizia spuntano Jean-Claude Izzo, l’amicizia di Sarkozy con la star Doc Gynéco, Carla Bruni e l’idea di una società d’oltralpe governata dal rap, introdotta con sarcasmo da Disiz La Peste. È un paziente lavoro di taglia e cuci che investe dichiarazioni pubbliche, schegge provenienti dalla rete, autobiografie, carte processuali, celebrità come NTM, I.A.M., Diam’s, Orlesan e figure più defilate come la regista Keira Maameri e la cantante Keny Arcana, protagoniste non a caso femminili di due dei capitoli più intensi del volume, molto attento e mai prevenuto su argomenti ricorrenti nell’ambiente come la discriminazione sessuale, l’omofobia e l’Islam. Ma il rap non è solo questione artistica e sociale: in ogni angolo del mondo è anche ricerca di identità, riflessione esistenziale, viaggio dentro di sé stessi. Ecco allora operatori di quartiere, MC e giornalisti interrograsi sullo sradicamento del territorio di provenienza, sugli anni che passano, sul business, su sfide e paure personali. Un libro che mancava, anche in Francia.
di Paolo Ferrari

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