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Tiziano Scarpa
Mi hanno molto colpito le tue riflessioni sul cortocircuito fra necessità del racconto e credibilità del racconto: Cosa vuoi dirmi a proposito?
Sai, il problema è che tanto per cominciare le parole stesse sono consumate. È difficile riuscire a trasmettere al lettore un’esperienza come il dolore, quando tutte le parole che lo descrivono, pensa soltanto al “dolore atroce” usato da Paolo Villaggio nei libri nei film di Fantozzi, sono depotenziate, poco credibili, sono parole che nel tempo hanno perso il loro valore. E poi esiste il problema stesso del racconto che in certi contesti rende comprensibile, normalizza, giustifica persino l’incomprensibile. È il dilemma con il quale si sono trovati a che fare i numerosi autori che hanno raccontato la Shoah. Come raccontare ciò che sul piano umano non è raccontabile? Alla fine credo che solo la qualità letteraria sia in grado di “salvare” sul piano etico una narrazione di carattere “estremo”. Infatti alla fine, per rimanere all’esempio della letteratura concentrazionaria (che in Dopo il lampo bianco non ho inserito proprio per le sue caratteristiche di eccezionalità, per rispetto verso le vittime) quella che rimane oggi è – tra non molte altre – la gigantesca, immensa opera di Primo Levi, l’autore di quello che probabilmente resterà “il libro del 900” e cioè Se questo è un uomo. Altre testimonianze dei lager, importantissime sul piano umano, sociale e politico, ma meno interessanti sul piano meramente letterario, non resteranno, spariranno nel tempo. La qualità letteraria è l’unica via d’uscita al cortocircuito innescato tra la necessità del racconto e la sua reale efficacia. Solo la letteratura può risolvere un problema creato da lei stessa.
Come si fa a nobilitare un’autobiografia dal punto di vista letterario?
Raccontandola come un romanzo, curando le entrate e le uscita di scena dei personaggi, che poi sono persone in carne e ossa che meritano un rispetto particolare, che a un personaggio inventato non si dedicherebbe. E poi con la scrittura. Che per storie così dev’essere spietata, deve saper chiamare le cose con il loro nome, ma anche raffinata, letteraria. Altrimenti tutto resta sul piano del ricordo o della cronaca. Senza la prospettiva, l’orizzonte, lo sfondamento letterario tipico del romanzo, il racconto resta attaccato alla pagina, e lì rimane. Non riesce a dirci nulla di noi, può commuoverci ma non ci impressiona davvero, non ci segna. Proprio come succede quando si legge la maggioranza delle autonarrazioni.
A un certo punto del romanzo scrivi di aver cancellato il file del libro che stavi scrivendo prima dell’incidente e di aver buttato nel cestino il manoscritto. Hai davvero rottamato tutto ciò che hai scritto prima del Lampo Bbanco?
Sì. Ho buttato via il romanzo che stavo scrivendo. Era inutile. Vediamo ora cosa mi verrà voglia di scrivere in futuro. Sono curioso anch’io di sapere cosa sarà.
Com’è stato lavorare con una piccola casa editrice come Agenzia X? Che differenza hai trovato rispetto alle case editrici più note e presumibilmente anche più ricche con cui avevi lavorato in precedenza?
È stata un’esperienza interessante, anche se tutto è molto più difficile. Molte testate neanche ti considerano se pubblichi per una casa editrice piccolissima, e per di più con una fama di militanza come Agenzia X. Ma comunque Dopo il lampo bianco è arrivato persino sulle pagine del “Corriere della Sera” con una recensione molto favorevole, dove neanche il mio primo romanzo I ragazzi del mucchio, che ha venduto molto di più di quest’ultimo, era arrivato. È un’avventura che ripeterei.
Quanto resta di te del musicista/protagonista dei I ragazzi del mucchio?
È sempre difficile parlare di se stessi, bisognerebbe lasciare ad altri questo giudizio. Ma sforzandomi di rispondere lo stesso a questa domanda, posso dire che sono certamente cambiato parecchio come persona, anche se credo che dentro di me sia rimasto molto del ragazzo che sono stato; ad esempio la curiosità, la voglia di sperimentare, l’autodisciplina, la passione e l’orgoglio con cui si fanno le cose. Poi certo, i tempi e gli ambienti sono parecchio cambiati. Ma riuscire a invecchiare senza perdere queste tre o quattro caratteristiche fondamentali mi sembra già un bel risultato, no?
La parola “cicatrice” resta la tua preferita?
È la voce che ho scritto anni fa per il Dizionario affettivo della lingua italiana pubblicata da Fandango. Sì, è ancora una parola meravigliosa. Per come risuona in bocca con tutte quelle c, e per il significato di esperienza e di tempo, di “prima” e “dopo” che ha. Due valori che da soli bastano a combattere la stoltezza e il vuoto di questi tempi. Se ci pensi, sono la medesima stoltezza e il medesimo vuoto contro i quali combattevo come paroliere e musicista.
Per contattarti?
Ho da poco aperto una pagina facebook che si chiama proprio Dopo il lampo bianco dove sono reperibili interviste, foto, recensioni del libro e anche la voce “cicatrice” del “Dizionario Affettivo” di cui si parlava poco fa. Vi invito a visitarla!
di Stefano Bettini
di Alessio Bertallot
di Elena Girardin
di Tiziano Colombi
di Maurizio Di Maggio
di Matteo Giancotti
di Giulia Caira
di Lietta Manganelli
di Piero Santi e Sergio Rotino
di Paolo Ferrari
di Fabrizio Cristallo
Questo punto, questa interpretazione della letteratura non coma fiction pura, ma che ha invece come punto fondamentale l’esperienza personale, merita un approfondimento…
“Quello che hai visto scrivilo in un libro”, è un versetto del primo capitolo dell’Apocalisse di Giovanni. Quindi come vedi non ho inventato niente. È vero però che da allora a oggi il modo di raccontare quel che si vede è cambiato radicalmente. Sono convinto che per raccontare al meglio un’esperienza vera oggi sia necessario usare tutti i trucchi della fiction, come ho fatto nei Ragazzi del Mucchio e ancora di più in Dopo il lampo bianco. E poi tutto ciò che si scrive, nel momento stesso in cui si scrive, proprio perché si scrive diventa fiction. Il fatto che poi questa fiction nasca da un fatto vero serve solo a caricare di ulteriore forza la storia, è credibile proprio perché è successa davvero. È un po’ la stessa cosa che ha fatto ad esempio Paul Greengrass, il regista di Bloody Sunday. Il film è ben riuscito perché, proprio utilizzando tutti i trucchi delta fiction, ti scaraventa in mezzo a quella che sembra una ripresa diretta del massacro dei civili irlandesi a Derry, nel 1972, da parte dei paracadutisti britannici. Ti sembra di vedere un documentario, non un film di finzione.
In appendice alla domanda precedente: l’approccio di cui sopra ha per te una validità solo personale, o pensi che sia perseguibile anche in generale?
Non amo i fondamentalismi, quindi questa letteratura che mischia autobiografia, fiction, memoir e saggio è quella che piace fare a me. Io la chiamo “letteratura di convergenza”, per quanto la fiction sia la forza preponderante in questo quadro. Ma da lettore ho gusti diversissimi, e più i libri sono diversi tra loro più la letteratura è ricca e godibile nel suo insieme.
Hai scritto un libro, il tuo secondo, in cui racconti una storia di pura fiction. Qual è la differenza tra la creazione di un personaggio immaginario e la trasposizione su carta di qualcuno che è realmente esistito? Come autore, a quale tipologia sei più legato?
Nel momento stesso in cui porto su carta un personaggio che esiste davvero nella realta, lo rendo un personaggio di fiction, che non avrà mai la pretesa di rappresentare le migliaia di sfaccettature e particolari della persona in carne e ossa. Come autore mi prendo la responsabilità di questa traslazione dalla realtà al racconto, una responsabilità che inventando un personaggio di sana pianta ovviamente non ho.
Immagino che la tua percezione dell’esperienza traumatica che hai vissuto sia sicuramente cambiata nel corso del tempo. Scrivere Dopo il lampo bianco è servito ad acquisirne un’immagine diversa? E se per ipotesi dovessi riscrivere il libro tra dieci anni, pensi che ne verrebbe fuori qualcosa di molto differente?
Non so se scrivere il libro mi abbia aiutalo ad acquisire un’immagine diversa del mio incidente e di tutto quello che ne è seguito, ma posso certamente affermare che se lo riscrivessi, non dico tra dieci anni, ma anche solo domani mattina, già sarebbe diverso. È un processo legato all’apprendimento, ai libri degli altri che si leggono, alle persone che incontriamo. Sono queste cose che cambiano il mio scrivere ogni giorno.
Due dei tuoi tre libri sono (appunto) basati su vicende autobiografiche. Hai ancora materiale per impostare un nuovo libro? Oppure questo approccio ha il limite di non avere sempre materia prima sufficiente a giustificare la scrittura?
La materia per impostare nuovi libri c’è, visto che potrei usare in futuro lo stesso approccio di “racconto di una storia vera” anche per storie vissute da altri. Quindi si tratterebbe di passare dall’autobiografia alla biografia, sempre in chiave fiction ovviamente, mischiando la realtà con la letteratura, l’esperienza con il racconto. Detto questo, dopo aver scritto I ragazzi del Mucchio, che è soprattutto un romanzo di formazione su un’adolescenza molto particolare, pensavo che non avrei mai più vissuto un’esperienza straordinaria come quella di essere stato un musicista hard core che a vent’anni era in giro per il mondo con la propria band. Invece poi la realtà mi ha smentito, e mi ha fatto vivere un’altra esperienza ancora più improbabile di quella. Quindi chissà mai cosa potrà succedere…
Un ringraziamento a Fabrizio Cristallo per il contributo alle domande.
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